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LUGANO«No, i palestinesi non sono bestie»

12.04.24 - 06:30
Gianluca Grossi per anni è stato inviato in Medio Oriente. Conosce bene Gaza. «Lì è la vita nel suo accadere».
AFP
«No, i palestinesi non sono bestie»
Gianluca Grossi per anni è stato inviato in Medio Oriente. Conosce bene Gaza. «Lì è la vita nel suo accadere».

LUGANO - Appunti, ricordi, lettere e dispacci dal fronte, solo accantonati ma mai dimenticati. Frammenti di una storia che riemerge con violenza ora dopo tanti anni. Testimonianze, mai svelate prima d’ora, dettate dalla necessità di ricordare al mondo che no, «i palestinesi non sono bestie» e che, purtroppo, la guerra in quel lembo di terra di poco più di 300 chilometri quadrati, è sempre stata presente. 

Tutto questo è racchiuso in “Gaza. Dispacci dal dimenticatoio”, il nuovo libro di Gianluca Grossi, pubblicato con la casa editrice REDEA. Il reporter e fotografo di guerra ticinese ripercorre gli oltre dieci anni in cui faceva spola tra Gerusalemme e l’enclave palestinese per raccontare un dramma che si ripropone ora più attuale che mai. «Quando è scoppiata questa guerra, è stata data una definizione della popolazione civile palestinese che andava a cercare i riferimenti nel mondo animale. La popolazione di Gaza è stata consegnata a un bestiario». Una narrazione davanti alla quale il reporter di guerra ticinese non è rimasto in silenzio. «Ho sentito la necessità di spiegare al pubblico chi è la popolazione civile di Gaza, chi sono queste persone». 

Gianluca Grossi

La disumanizzazione delle vittime, volta a giustificare la violenza sprigionata contro la popolazione, si ripete in ogni conflitto. Cosa c'è di diverso a Gaza?
«Esatto, succede in ogni guerra. Altrimenti faremmo fatica a credere che sia giusto uccidere dei nostri simili. Pensiamo che chi abbiamo di fronte, il nostro nemico, non è più un essere umano. Ma è ormai qualcosa d'altro: una bestia contro la quale è giusto combattere. L'obiettivo per cui ho scritto questo libro è sottrarre la popolazione civile della Striscia alla definizione animalesca che ne è stata data. Ma non solo. In fondo, molti hanno ceduto alla tentazione di credere che davvero tutte quelle donne e quei bambini, quei vecchi, fossero degli animali. A tutta la popolazione civile della Striscia è stata accollata la colpa e la responsabilità dell'attacco di Hamas del 7 ottobre. A questo punto tutti erano complici e colpevoli e tutti meritavano di essere puniti».

«Mi sentivo a casa a Gaza». Perché è così legato a questa terra?
«A Gaza ho vissuto l'esperienza della vita nel suo accadere simultaneo. Molto spesso crediamo che la vita succeda in tempi e momenti diversi. Nella Striscia ho avuto l'impressione di assistere alla vita nel suo accadere proprio nello stesso istante: la gioia, il dolore, la felicità, la disperazione, la speranza, la violenza. Questa è stata per me un'esperienza rivelatrice: la popolazione civile di Gaza affronta in brevissimo tempo tutto quello che noi affrontiamo nel corso di un'intera vita, e anzi molto di più. Questo per me è stato fondamentale nel mio modo di guardare alla realtà».

In Medio Oriente le guerre si susseguono in un ciclo di violenza che sembra interminabile. Non c'è via di uscita?
«È tutto molto concentrato. In realtà, le guerre si susseguono anche altrove, come ne stiamo vedendo una dimostrazione in Europa. Gaza è una strada senza uscita, quindi si può soltanto arrivare in fondo e tornare indietro. Non c'è una visione alternativa. La gente non può uscire dalla Striscia se non in condizioni eccezionali. La mia impressione è che Gaza venga considerata una terra sulla quale si possono realizzare tutta una serie di esperimenti di laboratorio, anche di carattere militare, per vedere come reagisce la gente. Si può fare di tutto tanto lo dimenticheremo. In queste condizioni la Storia non può che ripetersi».

Il libro è dedicato alle madri. L'aneddoto della compassione di sua madre per quella «povera gente» che si mischiava alla rabbia è centrale. Perché non bisogna fermarsi all'empatia ?
«L'empatia è sempre meglio dell'indifferenza, ma contiene un elemento sospetto verso il quale risulto allergico: l'autocompiacimento. L'empatia produce una sorta di appagamento nell'istante in cui capiamo che non siamo indifferenti a ciò che accade agli altri nel mondo. La rabbia, invece, corrisponde al desiderio che le vittime delle ingiustizie non vengano mai più a trovarsi in queste condizioni. La rabbia corrisponde al desiderio che le cose finalmente cambino».

Ognuno di noi è quindi chiamato a un ruolo attivo.
«Rassegnarsi alla sua constatazione ci rende complici della guerra. Ragionare, invece, attraverso questa insurrezione individuale e assecondando la rabbia porta a ricercare le ragioni per cui alcune persone si trovano a subire la guerra. La rabbia, diciamo l'indignazione, porta, inoltre, poi all'applicazione del pensiero critico alla realtà. La pietà va oltre lo schieramento».

Eppure il conflitto a Gaza ha provocato una polarizzazione, anche nella nostra società, per certi versi spaventosa.
«È una reazione, che in fondo corrisponde a una sorta di autodifesa. Siamo portati a credere che comunque i buoni debbano esistere e, schierandoci per gli uni piuttosto che per gli altri, crediamo di avere scelto la parte dei buoni. Quindi questa polarizzazione è anche un modo per non dover affrontare la complessità del reale. È tutto più semplice quando siamo convinti di stare dalla “parte giusta”. Questo ci impedisce di dover fare i conti con la grande complicazione del reale».

Una ricerca, non evidente, che presenta tante incognite.
«Quando ho visto le immagini del corpo senza vita di Shani Louk, la ragazza israeliana seminuda caricata su un pick-up dai miliziani di Hamas, mi sono chiesto: se mi fossi sbagliato nei confronti dei palestinesi? Se tutti i palestinesi che ho intervistato con cui ho parlato mi avessero mentito, e fossero davvero delle bestie sanguinarie? Dubbi che ho provato anche quando un amico israeliano mi ha scritto, dopo l'attacco del 7 ottobre: "Questa volta massacriamo tutti. Questa volta radiamo al suolo tutto e cambiamo il Medio Oriente". E se mi fossi sbagliato anche sugli israeliani? Non mi sono sbagliato con nessuno. Tuttavia, non mi sono sottratto a questi interrogativi, per quanto dolorosi e disorientanti essi siano. È indispensabile affrontarli».

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