Cerca e trova immobili

Moda sostenibile«Non voglio vendere coscienze pulite alle persone»

13.06.23 - 11:00
Conscious, fair, slow: cosa significa davvero «sostenibilità» nel mondo della moda?
Jungle Folk
Ed ecco come appaiono gli abiti sostenibili e sempre alla moda di Jungle Folk.
Ed ecco come appaiono gli abiti sostenibili e sempre alla moda di Jungle Folk.
«Non voglio vendere coscienze pulite alle persone»
Conscious, fair, slow: cosa significa davvero «sostenibilità» nel mondo della moda?
Forse semplicemente non ritenere di essere perfetti. Il marchio zurighese Jungle Folk punta sull’impegno sociale e sull’assoluta trasparenza.

Dieci anni fa, quando Pauline Treis decise di fondare il suo marchio di moda Jungle Folk, non era per nulla semplice trovare materiali sostenibili. I tempi però sono cambiati. Conscious, green, fair, slow: anche i grandi marchi di fast fashion si appropriano ora di queste parole nella speranza di ripulire la coscienza dei propri clienti.

Ma la realtà è diversa: il mondo è un sistema complesso e il settore della moda non fa eccezione. Cosa si intende davvero quando si parla di «sostenibilità»? E come si fa a orientarsi in un settore in cui circolano così tante falsità? Sono queste le grandi domande che si pone Pauline Treis con il suo label Jungle Folk.

 

Pauline Treis, come ci si comporta in questo settore come piccole case di moda ora che anche i grandi attori, almeno all’apparenza ma comunque in grande stile, puntano sulla sostenibilità?

Come consumatori occorre chiedersi se i nostri valori corrispondono con quelli di un determinato marchio. È molto complicato visto che ora molte marche si pubblicizzano come «sostenibili» e «conscious». Su nessuno dei prodotti è scritto però da dove provengono le materie prime, come vengono filate e tessute. «Made in» descrive generalmente solo una delle tante fasi di lavorazione nella complessa catena di produzione degli abiti. Le marche di fast fashion copiano le tecniche delle piccole imprese: ad esempio, allegano una lettera scritta a mano a ogni ordine consegnato ma dietro di essa c’è un Corporate Office con centinaia di collaboratori. Il settore della moda è un vero campo di battaglia. Io cerco di essere trasparente. Sul nostro sito web, si può leggere da dove proviene ogni prodotto e ogni materia prima e dove vengono lavorati. La domanda è: qual è la forza motrice di un’impresa? Cosa significa «sostenibile» o «conscious» per il marchio che fa pubblicità usando questi termini?


Qual è la vostra forza motrice?

Non siamo mai stati orientati alla crescita. Per me, Jungle Folk rappresenta la possibilità di esprimermi in modo creativo e al contempo di collaborare con persone e progetti interessanti da tutto il mondo. Offro agli artigiani una piattaforma per vendere i loro fantastici abiti e accessori tramite il mio label. Per me è importante stabilire una collaborazione a lungo termine con le imprese a conduzione famigliare che producono gli abiti. Ho una responsabilità nei loro confronti.

 

I suoi abiti vengono prodotti ad esempio in Perù. Il «Made in Europe» non sarebbe stato più sostenibile?

Se le materie prime provengono dalla Cina e vengono anche tessute laggiù, il «Made in Europe» significa poco anche se suona bene. Bisogna guardare l’intero ciclo di vita di un prodotto partendo dalle materie prime iniziali. I vestiti che faccio produrre in Perù sono tessuti con materie prime peruviane. Alcuni pezzi arrivano dall’India e sono prodotti con cotone biologico indiano. Produco anche in Portogallo con lino francese. Cerco di mantenere le sedi di produzione il più possibile vicine alle materie prime.

 

Sull’industria della moda non c’è molto di positivo da dire: in questo momento sul nostro pianeta ci sono abbastanza capi da vestire le prossime sei generazioni. Come si concilia questo con la sostenibilità dichiarata da Jungle Folk?

Sono parte dello stesso sistema che sto cercando di combattere. Non voglio vendere alle persone una coscienza pulita insieme alla t-shirt di cotone bio. So dove vanno i soldi spesi per acquistare i miei prodotti e so che sono soldi ben spesi. Al contempo voglio motivare le persone a prendere decisioni d’acquisto consapevoli. Si tratta anche di smettere di chiedersi se acquistare una determinata camicia è greenwashing e semplicemente di acquistarne di meno. Jungle Folk per me non è mai stata orientata alla crescita ma alla comunità e alla comunicazione. Nel mio atelier offro anche workshop e possibilità di incontri per chi si interessa di questa tematica.

 

Dopo il crollo di una fabbrica tessile in Bangladesh avvenuto dieci anni fa, le condizioni di lavoro nel settore della moda sono diventate un tema di grande attualità.

Per me è stato importantissimo fin dall’inizio che il mio label potesse sostenere le persone in vari Paesi del mondo a costruire qualcosa per sé stesse, a creare un giro d’affari. Per me è importante creare una collaborazione stabile e a lungo termine nelle sedi di produzione del mio marchio. Ma al contempo talvolta mi chiedo: sto solo alimentando ulteriormente un sistema capitalistico? La risposta a questa domanda non è univoca ed è molto complessa.

 

Cosa ne pensa dei certificati?

Se fossimo un’impresa più grande li richiederei ma il procedimento è incredibilmente dispendioso e per noi piccoli label non è sostenibile dal punto di vista delle risorse e finanziario. Quando acquisto materiali finiti, mi assicuro che siano certificati e cerco di compensare con la trasparenza. Ma penso che i certificati dovrebbero essere la norma per i grandi marchi.

Entra nel canale WhatsApp di Ticinonline.
COMMENTI