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L’INTERVISTASpiritualità e hockey, Patrick Fischer e il suo delicato equilibrio

02.04.24 - 06:30
«Il Palo Santo per l’energia e lo spazzolino da denti per l’alito»
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Spiritualità e hockey, Patrick Fischer e il suo delicato equilibrio
«Il Palo Santo per l’energia e lo spazzolino da denti per l’alito»
«Non sono solo Fischer. Sono anche Patrick. Sono un papà, un fratello, un figlio, poi anche l’allenatore della Svizzera».
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SULZ - L’hockey è per lui importante, in certi momenti totalizzante; nella vita di Patrick Fischer c’è però anche altro. Molto altro. 

Il selezionatore della Svizzera è ovviamente concentrato sul gioco e sulla gestione del gruppo, sa tutto di schemi, momentum, piste e trasferte. Tolto il completo rossocrociato, smette tuttavia di essere coach, “Fischi” o Fischer e diventa semplicemente Patrick. Chiusa la divisa nell’armadio, si lascia alle spalle la parte analitica per abbracciare quella spirituale. 

«Lo sciamanesimo mi ha aiutato a superare l’infortunio del 2001 e mi è stato di grande supporto nel proseguire la mia carriera - ha sottolineato proprio Patrick - Una terapia lontana da quella che è la medicina tradizionale mi ha permesso di riprendermi da un infortunio e di continuare a giocare. L’ho fatto per altri otto anni. Inizialmente solo curioso, nel 2009, quando ho deciso di smettere, ho poi approfondito la mia conoscenza. Tutto ciò non l’ho cercato io, è arrivato a me. Oggi si parla di energia, di pilates, di yoga, di ipnosi… Era ora: secondo me quello che è davvero importante è guardarsi dentro e farsi delle domande. Perché mi sento così? Perché reagisco così? A me, da subito, tutto ciò ha aiutato molto a gestire le situazioni. Forse all’inizio, entusiasta, ho parlato tanto di questa cosa e ho fatto storcere il naso a qualcuno. Forse per qualche persona il mio modo di pensare era un problema o dava fastidio. Ma insomma, nel rispetto di tutti, che si tratti di meditazione, di un rituale, di una passeggiata nel bosco, io cerco di fare qualcosa che mi faccia stare bene. Che mi permetta di trovare una pace e una calma interiori che per me sono fondamentali. È partendo da quelle che trovo l’attenzione e la motivazione necessarie per fare bene il mio lavoro. Non posso né voglio controllare quello che pensano e provano gli altri».

Sei stato un giovane affamato, un professionista affermato, un allenatore di club e ora sei il coach della Nazionale. Hai vissuto almeno quattro vite; quale ti è piaciuta di più? 
«La quinta, quando sono in vacanza. Scherzi a parte, so quanta fortuna ho avuto finora. In ogni istante libero avuto da bambino ho giocato a hockey o unihockey. Poi sono stato professionista per 17 anni. In seguito, grazie alla fiducia di Vicky Mantegazza, sono diventato coach in un club, il Lugano, al quale sono molto legato e nel quale avevo già militato vincendo il mitico titolo con l’Ambrì. Un club che con me, iniziando con dodici giovani in rosa, con Fazzini ma anche Gianinazzi, ha fatto quello che è ancora il suo record di punti in regular season. A Lugano ho vissuto sette anni, è stato un luogo importante per me. Ma poi è arrivata una nuova sfida. E le nuove sfide, fin da quando ero in pista, mi sono sempre piaciute. La Nazionale cercava un allenatore che portasse un cambio di identità, la Federazione ha notato e apprezzato quanto fatto in bianconero ed eccomi ancora qui dopo otto anni, super felice di cominciare la preparazione per una nuova avventura, quella del Mondiale. La vita è fatta di alti e bassi, ma se c’è del potenziale per crescere ed emozionarmi, io sono sempre entusiasta di affrontare una sfida».

Nella prima parte della tua vita c’è stato tanto Fischer e poco Patrick. Ora, con la Nati, sembri invece aver trovato l’equilibrio. In futuro ti vedi ancora spremuto sulla panchina di un club?
«Onestamente? Non so se tra dieci anni sarò ancora nel mondo dell’hockey. Non significa che non ci sarò, solo che sono flessibile, spontaneo. Quando mi sento di cambiare, volto pagina abbastanza in fretta. Davvero, io stesso a volte mi sorprendo. Il futuro però è lontano, ora sono concentrato sulla Nazionale, sul Mondiale: vogliamo fare felici i nostri tifosi».

Lasciando la panchina rossocrociata per un altro impiego potresti forse ritrovarti con meno tempo libero.
«Il ruolo attuale mi permette di trascorrere del tempo con la mia famiglia, e questo è bellissimo; non è in ogni caso impossibile che tra un paio d’anni io sia sulla panchina di un club. Questo mi costringerebbe a una vita più frenetica? È sicuro, quando una persona fa qualcosa che le piace non può in ogni caso dire che sta lavorando. Il segreto è lì, saper staccare. Anche ora sono “presissimo” da quello che faccio, ma, appunto, non sono solo Fischer. Riesco pure a essere Patrick. Sono un papà, un fratello, un figlio, poi anche l’allenatore della Svizzera».

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Hai fatto del rispetto una delle costanti della tua vita. Ne vedi attorno a te?
«Penso che possiamo tutti imparare ancora molto. Anche solo guardando la natura, gli animali. Tra guerre e sofferenze, per certi versi l’umanità è tristissima, mostra a volte poco rispetto per la stessa vita. Siamo aggressivi, possessivi, e questo non è ovviamente un bene. D’altro canto credo ci sia anche tanto bene e tanto bello nel mondo. Ed è su questo bene e su questo bello che dobbiamo concentrarci: vedere le cose buone per affrontare con positività le sfide che ci permettono di migliorare».

Spesso, per lavoro, devi partire. Cosa non può mai mancare nella tua valigia?
«Il Palo Santo (un incenso naturale, ndr). Il suo profumo mi dà molta tranquillità e la giusta energia: quando sono in albergo lo uso molto. E poi spazzolino e dentifricio, così i giocatori sono contenti quando parlo: non hanno problemi con il mio alito (ride)».

Sei di Zugo, vivi vicino Lucerna, hai abitato in Canada, in Ticino, negli Stati Uniti e in Russia. Sei spesso in Costa Rica e in Perù. Casa, quella vera, dov’è?
«In Svizzera. Dove vivo adesso con la mia famiglia. Poi ho anche altri due posti del cuore. Il primo è la Costa Rica. Il Golfo Dulce, per essere precisi, un posto dove si arriva solo con la barca, dove da qualche anno io e mio fratello abbiamo aperto una struttura ecosostenibile. Sul mare, vicina alla laguna, nella foresta… è un piccolo paradiso dove posso staccare e vivere la natura più pura». 

L’altro posto?
«Dietro la balaustra, in panchina, con la mia squadra».

Il tuo lavoro più complicato è quello del padre. Tra tanti anni, quando ti volterai indietro, che insegnamento speri di aver lasciato al 23enne Kimi e alla piccola Oceania?
«A mio figlio ho sempre detto: “Quando a vent’anni andrai fuori, nel mondo, veramente importante sarà come tratterai le persone e le cose. Il rispetto non deve mai mancare”. Ho puntato molto su questo, ho provato ad aiutarlo ad avere fiducia in sé stesso e ho spinto perché fosse curioso. Ho provato a prepararlo agli alti e ai bassi della vita e a insegnargli che, davanti agli ostacoli o ai momenti duri, non si deve abbattere ma essere positivo. Come papà questi mi sembravano gli aspetti fondamentali. E sono felice e orgoglioso di quello che è diventato». 

E Oceania?
«È la mia piccola, per ora me la godo in tutto il suo splendore».

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