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Il fascismo non è una lingua morta

Da Benito Mussolini fino ai populismi contemporanei. Con Antonio Scurati ripercorriamo una connessione lunga un secolo.
Da Benito Mussolini fino ai populismi contemporanei. Con Antonio Scurati ripercorriamo una connessione lunga un secolo.
Lo scrittore italiano, autore della saga "M.", aprirà l'edizione 2023 dell'Endorfine Festival di Lugano.

Cento anni fa come oggi. Il linguaggio politico che ha preso vita dalla nascita del fascismo in Italia intride la retorica dei populismi moderni. Ed è per questo che la figura di Benito Mussolini «è sempre più d'attualità a livello mondiale». A sottolinearlo è Antonio Scurati, scrittore, accademico e autore della saga letteraria"M." che venerdì (15 settembre) aprirà l'edizione 2023 di Endorfine Festival a Lugano. E con cui abbiamo ripercorso questa connessione lunga un secolo. 

C'è una frase che si sente spesso ripetere:"L'Italia non ha mai fatto, fino in fondo, i conti con il fascismo". Dopo quasi un anno di governo"griffato" Fratelli d'Italia, qualcosa è cambiato in meglio o la tesi si è rafforzata?
«Si è senz'altro rafforzata. Sia la vittoria elettorale di Fratelli d'Italia che il primo anno di governo dimostrano, e confermano, il fatto che l'Italia non abbia mai fatto i conti con il fascismo. In generale, fare i conti come è stato fatto in Germania, con ciò che loro chiamano"superamento del passato", avrebbe significato partire dal presupposto e dalla consapevolezza che gli italiani sono stati fascisti. Che il fascismo è stata un'invenzione italiana. Non lo sono stati tutti, ma la maggior parte. E quindi riflettere ed elaborare il proprio passato nazionale a partire da un senso di responsabilità e anche da un senso di colpa. Ed è il motivo per cui io decisi anni fa di raccontare il fascismo attraverso i fascisti; mettendo al centro i protagonisti della violenza. Perché, sin dal dopoguerra, è stato invece sempre raccontato dall'ottica delle sue vittime. Questo è stato necessario per rifondare la Repubblica e la democrazia italiana ma ha lasciato in ombra il fatto cruciale: noi siamo stati fascisti, come popolo. E tornando alla stretta attualità, sia il risultato elettorale che il primo anno di governo hanno dimostrato che la tattica dei post-fascisti di non affrontare la questione, e di non accettare il dibattito su questi temi, è stata vincente; nel senso che la maggioranza degli italiani ha dimostrato di non volere o non potere, o non essere interessata, a questo argomento».

Ma qual è l’Italia che deve ancora fare i conti col fascismo? In fondo siamo nel 2023 e gran parte del Paese il fascismo non lo ha mai conosciuto di persona…
«Sì, sono trascorsi cent'anni dal suo inizio e poco più di settanta dal suo apocalittico epilogo. Ma il fascismo resta l'evento centrale della nostra storia contemporanea. E Mussolini resta la personalità politica centrale della nostra storia contemporanea. Ed è sempre più d'attualità a livello mondiale. Perché Mussolini non fu solo il fondatore del fascismo ma è il capostipite, l'archetipo di ogni successivo leader populista del secolo a venire. E inoltre la nuova classe dirigente che ci governa viene da una militanza sotto le insegne del neo-fascismo. Quindi è sì un evento storicamente lontano ma ancora presentissimo. Gli italiani che devono fare i conti col fascismo sono quelli di oggi, non quelli di ieri».

Parlando di populismi contemporanei, anche il linguaggio di Mussolini - verbale e non - resta attualissimo. Riuscirebbe, come si suol dire, a"bucare lo schermo" anche oggi?
«Nella mia saga racconto un Mussolini diverso da quello che viene abitualmente raccontato e che ha tutti i tratti di un innovatore nel linguaggio della politica. Che ebbe delle intuizioni assolutamente lungimiranti su ciò che la politica sarebbe diventata nell'era delle masse; che allora si apriva e che oggi è nella sua fase matura. A partire dalla rivoluzione che portò nel linguaggio giornalistico. Il che fa di lui il primo populista. Mussolini, per farla breve, è il primo ad affermare l'equazione di fondo di ogni populismo, quella che da parte del leader dice:"Io sono il popolo e il popolo sono io". Il che ha delle conseguenze gravi per quanto riguarda la vita democratica perché, dato questo presupposto, chiunque non stia con quel leader è fuori dal popolo. È contro il popolo. È anti-italiano, anti-americano o anti-francese: è un nemico del popolo. E inoltre intuì che non potendo più praticare una politica della speranza - perché la speranza era la stella polare del socialismo, da cui lui proveniva ed era stato espulso - esisteva ed esiste, purtroppo, una sola grande passione politica più potente, ed è la paura. Sostituì quindi la politica della speranza a quella della paura, che è un'altra mossa tipica della leadership populista e applicò questo schema di brutale semplificazione della realtà. Di riduzione della complessità dei problemi ad un unico problema. Di quel problema a un nemico. Di quel nemico a uno straniero. Quindi qualcuno, sostanzialmente, uccidibile. Cent'anni fa questo straniero nemico fu individuato nei socialisti rivoluzionari; che venivano presentati così perché, sebbene italianissimi, si rifacevano al modello della rivoluzione russa. Quindi la propaganda fascista li additava come portatori della"peste asiatica". E oggi - in qualsiasi propaganda sovranista nella fase di conquista del potere, da Trump a Le Pen - quel ruolo è stato preso dai migranti».

Imago.«Nell'era delle masse la comunicazione politica passa prevalentemente non da testa a testa ma da corpo a corpo. Questa fu un'altra delle grandi intuizioni di Mussolini che fu il primo politico nella storia europea a mettere il corpo del leader al centro del teatro politico».

E Donald Trump, oggi, è forse il leader politico che più si avvicina, per il linguaggio ma anche nella sua fisicità, nella sua postura, a Mussolini...
«È quello più facilmente sovrapponibile. Anche nei suoi tratti esteriori. È maschio, misogino, machista. Fisicamente sgraziato ma imponente. Brutale nei modi. E così via... Ma questi tratti esteriori, che ricordano Mussolini, non devono sviarci dal comprendere che la sostanza della strategia politica vincente del populista non necessita di questi tratti. Un leader populista che applichi quelle mosse fondamentali per la conquista del potere può anche essere donna o avere un fisico minuto».

Soffermandoci per un attimo ancora su Trump. I suoi comizi. Le dichiarazioni. Spesso vengono derubricate a"sparate". Il raziocinio porta quasi istintivamente a sminuirle. E invece queste fanno presa sulla massa, perché non è alla ragione che parlano. È anche da questo sminuire che si apre un pericoloso"angolo cieco"?
«Sì, assolutamente. Quando noi, sedicenti progressisti, veniamo trasportati da questo senso di superiorità morale e intellettuale e liquidiamo queste"sparate" come una manifestazione di stupidità, in quel momento gli stupidi siamo noi. È caratteristica di Trump, come di quasi tutti i leader populisti, una deliberata linea d'azione anti-intellettuale, emozionale, mitologica, che punta più verso il mito politico che verso la razionalità. E Trump, come Mussolini, capisce un'altra cosa fondamentale: nell'era delle masse la comunicazione politica passa prevalentemente non da testa a testa ma da corpo a corpo. Questa fu un'altra delle grandi intuizioni di Mussolini che fu il primo politico nella storia europea a mettere il corpo del leader al centro del teatro politico. Quelle sue note esibizioni, quando trebbia il grano a petto nudo, quando fa il bagno o gli stessi discorsi dal balcone di Palazzo Venezia, in cui lui si atteggia e gesticola in modi che a noi sembrano ridicoli. Non sono affatto ridicoli; sono la conseguenza di questa intuizione. Dove il leader comunica con il suo elettorato attraverso il suo corpo; in una vibrazione fisica prima ancora che emotiva. E questo funziona, perché non tutti hanno un dottorato in scienze politiche ad Harvard ma tutti hanno un corpo».

AFP«Il leader populista comunica con il suo elettorato attraverso il suo corpo. E questo funziona, perché non tutti hanno un dottorato in scienze politiche ad Harvard ma tutti hanno un corpo».

Tra i banchi di prova dei populismi di questi ultimi anni c'è stato anche quello della pandemia. Ora che la crisi è alle spalle e si può tentare di tracciare un primo bilancio, secondo lei i populismi ne sono usciti più forti o più deboli?
«Durante la fase acuta della pandemia, molti commentatori la leggevano come la fine dell'ondata populista. Io non sono mai stato convinto di questo. Poteva essere considerata al più una battuta d'arresto; perché nei momenti in cui c'è bisogno di competenze e serietà di fronte a un evento drammatico, poi la gente cambia orientamento. Non saprei dire se la pandemia ha contribuito all'ascesa dei populisti o l'abbia in parte frenata. Quello di cui sono abbastanza convinto è che quest'onda populista e sovranista - soprattutto di estrema destra, ma non solo - sia ancora al principio e non certo alla fine della sua fase espansiva».