Il repertorio tradizionale si mescola a brani originali, il tutto a rotta di collo. Piace ai giovani? «È difficile che, dopo due o tre pezzi, restino fermi senza ballare»
LUGANO - Si chiama "a pata vèrta", raccoglie 15 brani ed è l'ultimo album dei Giangol. Leo Canepa (fisarmonica, voce e coro) e Davide Zoppellari (chitarra, voce e coro) sono venuti a trovarci in redazione e hanno suonato un paio di brani del loro repertorio folk, che rivisita (a rotta di collo) la tradizione e al quale si aggiungono canzoni di produzione propria. Non musica popolare "standard", tengono a sottolineare: il sound dei Giangol è qualcosa di molto più affine al folk contemporaneo, «qualcosa che in Ticino si sta perdendo».
Perché "...a pata vèrta!"?
L: «È un po' il genere che facciamo, sempre "a pata vèrta"! (ovvero pieno di energia, a rotta di collo ndr). Cerchiamo d'inserire generi non convenzionali a quella che è la musica popolare ticinese».
D: «Abbiamo la tendenza a modificare le canzone e a renderle un po' meno noiose, accelerando i pezzi. Infatti alcuni ci dicono che siamo sempre a manetta... Cercavamo un titolo che potesse rendere idea della velocità. Non per niente abbiamo un pubblico giovane che ci segue».
Su che basi avete scelto i brani del repertorio tradizionale da includere nel disco?
L: «Alcuni c'erano già nel primo disco: abbiamo cambiato la strumentazione e c'è una nuova line-up. A livello d'impatto musicale è tutta un'altra cosa. Ci sono delle monfrine che con il vecchio gruppo non suonavamo - più accelerate. Lo Sbrando, poi, non è musica delle nostre parti, ma piemontese, ma reinterpretato in questo modo si può benissimo integrare nel disco. C'è poi tutta una sequenza di canzoni che facciamo anche durante i live: macinando concerti abbiamo definito quali sono quelle più interessanti da sentire».
D: «Erano pezzi che già facevamo e abbiamo voluto dargli una nuova interpretazione, in chiave meno classica. Prendi "I gobeti": è un brano che se lo senti è di una noia allucinante. Lo abbiamo reinterpretato mettendolo tutto in minore, e già così cambia parecchi, poi parte come una musette e finisce... a manetta».
Che riscontri avete dai giovani che vengono ai vostri concerti?
L: «Dipende dalle feste, ma solitamente è difficile che, dopo due o tre pezzi, restino fermi senza ballare».
Com'è stato cimentarsi con la lingua d'Oltralpe in "Grüezi wohl frau Strirnimaa"?
L: «Io sono svizzero-tedesco (ride) e anche Stefano Fedele lo è per metà, quindi è stata una cosa naturale».
D: «È un brano fatto appositamente per il cd, non lo abbiamo ideato per compiacere il nostro pubblico svizzero-tedesco, anche se siamo considerati più fuori dal Ticino che qui».
Veniamo ai vostri brani: come nascono?
D: «"Ho ciapà i ratt", ad esempio, è nata per scherzo, era dedicata a un amico. Solo che inizialmente era costruita su un giro country, e l'avevo accantonata. Poi l'ho ripresa, ho cambiato gli accordi ed eccola nel disco. È nata, come le altre, nell'ispirazione del momento».
"L'è come in America", invece, è ispirata al fenomeno dei migranti o c'è una critica al Ticino di oggi?
L: «Tutte e due le cose. L'ho scritta pensando a mio nonno, che andava e veniva dall'America. Ho cercato di mettermi nei suoi panni e dire: "Ok, adesso uno va via, non torna più per 30-40 anni, poi quando torna chissà che cosa trova. Se guardo a come è cambiato il Ticino dagli anni '50-'60 ai giorni nostri, si è partiti da una cultura molto incentrata sui valori e oggi ci stiamo ingabolando in tutta una serie di impicci burocratici e amministrativi, che rendono il tutto più difficile. Ciò si traduce in malessere, insofferenza e malagestione».
Com'è stato accolto il disco?
D: «I riscontri sono stati molto positivi. Non lo abbiamo ancora presentato ufficialmente dal vivo, con i Giangol facciamo pochi concerti durante l'anno, li scegliamo accuratamente anche per distanziarci dalla musica popolare. Non per fare gli "sboroni", ma per avvicinarci di più a quella che è la scena folk. Così paga».