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LUGANOA Lugano il caso di Julian Assange, lo spartiacque della nostra società

30.08.22 - 06:30
Il 10 settembre Stefania Maurizi racconterà nel corso di Endorfine Festival la storia del fondatore di WikiLeaks
AFP
A Lugano il caso di Julian Assange, lo spartiacque della nostra società
Il 10 settembre Stefania Maurizi racconterà nel corso di Endorfine Festival la storia del fondatore di WikiLeaks

LUGANO - Questa è la storia del «prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un'apparenza di democrazia». Così il grande regista britannico Ken Loach descrive la vicenda di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks - l'organizzazione giornalistica che, con i suoi scoop, ha permesso di far luce su alcuni scandali legati agli abusi commessi dalle truppe statunitensi in Afghanistan e Iraq, le condizioni di detenzione nel carcere di Guantanamo, l'intercettazione dei cittadini l'11 settembre 2001 e così via.

«Un eroe», «No, un criminale» - Assange - 51 anni, giornalista, hacker e attivista australiano - è considerato sia un eroe della ricerca della verità e della libertà di stampa che un pericoloso divulgatore di dati riservati. «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana». Così la pensava l'ammiraglio Usa Mike Mullen e così rincarava la dose il Pentagono: «Condanniamo WikiLeaks perché induce gli individui a violare la legge, fa uscire documenti classificati e poi con noncuranza li condivide con tutto il mondo, inclusi i nostri nemici». Un'accusa, questa, che ha attecchito parecchio nell'opinione pubblica e ha avvelenato il dibattito sul reale ruolo dell'organizzazione e del suo fondatore.

Oggi l'annosa vicenda di Assange è vicina a una delle svolte decisive: la possibile estradizione degli Stati Uniti, che potrebbe essere fatale per un individuo che è stato privato delle più elementari libertà da oltre un decennio. In vista della conferenza che terrà a Lugano il 10 settembre, nell'ambito dell'Endorfine Festival, abbiamo parlato con Stefania Maurizi, giornalista italiana che ha collaborato con WikiLeaks, pubblicando storie esplosive su "L'Espresso" e "Repubblica". Il suo libro "Il potere segreto" è una ricostruzione iper-documentata dell'intera vicenda di Assange e della battaglia legale in corso da lungo tempo.

Come sta Julian Assange?
«La situazione è estremamente seria. Continua a essere recluso nel penitenziario di Belmarsh, il più duro del Regno Unito e che il governo di Tony Blair voleva trasformare nella Guantanamo inglese. È soggetto a condizioni estremamente severe, che si vanno ad abbattere su una persona che negli ultimi 12 anni non ha più conosciuto la libertà e non ha più potuto camminare per la strada da uomo libero. Il regime molto duro si va a sommare su una salute già gravemente compromessa dopo oltre un decennio di confinamento e isolamento in spazi estremamente ristretti (oltre alla detenzione si somma la permanenza nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove Assange si era rifugiato chiedendo asilo politico, ndr). In più, ad Assange è stata diagnosticata la sindrome di Asperger, che è un disturbo dello spettro autistico. Inoltre ha avuto un'ischemia transitoria, che può essere il preludio a un grave ictus».

È stato detto che quella di Assange è una "detenzione arbitraria"...
«Non la chiamo io così, ma il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria incaricato dall'Onu. È una persecuzione causata dalle autorità americane e britanniche, dopo la pubblicazione dei documenti segreti del governo Usa. Da quel momento in poi, Julian Assange non ha più conosciuto la libertà».

Il "complesso militare-industriale Usa" è il primo nemico di Assange, ma si può dire che nessun governo lo ami. Cosa ci deve insegnare questa vicenda?
«Anche i regimi autoritari temono le rivelazioni di WikiLeaks esattamente come le temono gli Stati Uniti. Anzi, hanno paura che il modello WikiLeaks faccia scuola presso dissidenti e oppositori e diventi la regola».

La Svizzera è presente nel libro con il caso di Rudolf Elmer e Julius Bär: l'ex banchiere fu arrestato e, solo al termine di un lungo iter giudiziario conclusosi nel 2018 (peraltro con un'assoluzione), è stato stabilito che non ha violato il segreto bancario. Che messaggio lancia, questa vicenda, a chi decide di diventare un whistleblower?
«A tutte le latitudini c'è una guerra crudele e spietata ai whistleblower, ovvero chi rivela gli sporchi segreti delle istituzioni finanziarie e militari - quelli che sono i veri centri del potere nella nostra società. Nei regimi, chiaramente, ce l'aspettiamo, ma la vediamo anche in ogni Paese democratico - ed è qualcosa di meno noto e meno atteso. Diamo per scontato che da noi sia possibile denunciare questi gravi reati. In realtà, purtroppo, non è così: il prezzo che si ritrovano a pagare è altissimo e incompatibile con la libertà che dovrebbe esserci in una nazione democratica». 

Quanto si è dimostrata rischiosa la scelta di essere un whistleblower?
«Purtroppo è lunghissimo l'elenco dei whistleblower che hanno dovuto pagare un prezzo inaccettabile e insostenibile per aver semplicemente avuto il coraggio morale e la coscienza di rivelare crimini, atrocità, reati economici e gravissime violazioni dei diritti umani. Questa lista dà la misura di quanto il potere sia determinato ad andare contro questi personaggi e dare un esempio a tutti, in modo che tutti vivano in un clima d'intimidazione. Non è solo punire chi dimostra coraggio morale, ma anche scoraggiare tutti gli altri e creare un tale stato di paura e intimidazione che non si facciano avanti».

Lei ha vissuto degli episodi spiacevoli, che racconta ne "Il potere segreto": si è mai sentita minacciata?
«Ho sentito il potere d'intimidazione di questo potere. Sono stata presa di mira all'interno dell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, mentre facevo visita a Julian Assange: i miei telefoni sono stati aperti segretamente ed ero convinta che nessuno li avrebbe toccati. Poi sono emerse le prove di come sono stata ascoltata durante le mie conversazioni con Assange. Ripeto: nei regimi ti aspetti questo genere di sorveglianza aggressiva nei confronti dei giornalisti, ma non nelle democrazie. Lì ho avuto paura, la sensazione agghiacciante che potevano arrivare non solo a me, ma anche alle mie fonti. In altre situazioni sono stata seguita aggressivamente e rapinata, a Roma. Mi sono stati rubati documenti importanti che non sono più emersi. Le successive rivelazioni sui piani della Cia di uccidere Assange non hanno fatto altro che confermare la mia preoccupazione».

C'è stato il rischio concreto che Assange potesse essere assassinato?
«Difficilmente agenzie come la Cia operano come in un sistema autoritario, tant'è vero che si è poi rinunciato al piano di ucciderlo, per quello che si sa. Ma si usano altri metodi per distruggere un obiettivo, specialmente quando è così sotto la luce dei riflettori come Assange. Si è quindi optato per la via legale, con l'incriminazione e tutto quello che vediamo».

È una vicenda assolutamente unica al mondo: quanto è difficile da raccontare?
«Se non avessi vissuto questo caso dall'inizio, da 13 anni a questa parte, io stessa non avrei creduto a quello che è successo. Avrei detto "ma non è possibile, qualcosa di strano deve esserci..." Niente è normale in questo caso, niente».

Assange ha commesso degli errori?
«Tutti li facciamo, specialmente quando si naviga in acque inesplorate - come nel caso suo e di WikiLeaks, che hanno aperto uno squarcio nel "potere segreto" che è andato oltre una rivelazione occasionale, peraltro importantissima, come quella di Daniel Ellsberg e dei "Pentagon Papers". Assange poteva cercarsi più alleati nel fare questa operazione? Forse sì, ma abbiamo visto quanto è stato difficile trovare delle sponde nella stampa tradizionale - e non è che non ci abbia provato...».

Che giudizio personale ha su di lui?
«Credo che abbia fatto qualcosa di eccezionalmente importante, che ha richiesto un enorme coraggio morale. Ecco perché dobbiamo fare il possibile e l'impossibile per impedire che venga estradato e rinchiuso in una prigione negli Stati Uniti».

Nella Prefazione Ken Loach scrive che questo libro "dovrebbe farvi arrabbiare moltissimo". Sta avendo ragione? L'opinione pubblica si sta arrabbiando?
«Sì. L'opinione pubblica si sta mobilitando sempre di più, nonostante la campagna di distruzione della reputazione di Assange e di WikiLeaks - anche da parte di media prestigiosi come il New York Times e il Guardian. La mancanza di solidarietà è dovuta proprio a questa lunga strategia di demonizzazione che va avanti da più di 10 anni, che ha sottratto l'empatia dell'opinione pubblica e ha compromesso la possibilità di avere una sollevazione generale. Ma una mobilitazione la vediamo, eccome. Molti si stanno rendendo conto del trattamento abominevole e vergognoso, incompatibile con la libertà di stampa in una democrazia, a cui è soggetto Julian Assange».

Qual è l'urgenza, ora?
«Salvarlo. C'è l'altissimo rischio che possa vedere distrutta la sua vita per questa detenzione senza fine e l'estradizione negli Stati Uniti. Ora è il momento di "alzare la guardia" al massimo e impedire che accada quella che Loach definisce una "mostruosa ingiustizia"».

Cosa può fare il cittadino comune che si sente solidale con la causa di Assange e WikiLeaks?
«Tutti noi ci sentiamo frustrati e pensiamo di non avere potere. Invece noi cittadini abbiamo un grande potere, che è quello della mobilitazione. Sit-in, proteste, volantinaggio, ma anche mozioni comunali, contattare il politico locale di riferimento...».

Perché un cittadino qualunque dovrebbe occuparsi di quest'uomo?
«Questo non è un caso che riguarda solo noi giornalisti: si tratta essenzialmente del diritto di ciascuno di noi di conoscere i lati più oscuri del potere, ciò che il nostro governo fa a nome nostro (e con i nostri soldi), quando non ci sono occhi indiscreti - quelli del pubblico - che lo guardano. Quello che è incoraggiante è vedere che la popolazione finalmente ha capito questa fortissima opera di rimozione da parte dei media tradizionali. La reazione alla pubblicazione del mio libro si deve leggere proprio in questo senso».

C'è quindi una speranza?
«Quello che avviene è cruciale: solo noi dell'opinione pubblica possiamo salvarlo. La legge non lo salverà».

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