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LOCARNOCome ti “spezzava” Coppola e il segreto per diventare Bukowski, le confessioni di Matt Dillon

05.08.22 - 12:00
L'attore e regista americano, premiato ieri sera in Piazza Grande, ha incontrato oggi pubblico e stampa a Locarno.
Locarno Film Festival / Ti-Press / Alessandro Crinari.
Come ti “spezzava” Coppola e il segreto per diventare Bukowski, le confessioni di Matt Dillon
L'attore e regista americano, premiato ieri sera in Piazza Grande, ha incontrato oggi pubblico e stampa a Locarno.
«Sono uno a cui non piacciono le sorprese ma l'inaspettato ha dettato la mia vita».

LOCARNO - È stato uno dei belli e dannati della Hollywood scalpitante a cavallo degli anni '80 e '90, poi regista, ma sempre comunque volto noto e riconoscibilissimo. Matt Dillon è anche uno dei nomi più altisonanti di questa 75esima edizione del Locarno Film Festival.

Premiato ieri sera in Piazza Grande con il Pardo alla carriera (formalmente Lifetime Achievement Award), ha incontrato questa mattina la stampa e il pubblico di Locarno. A moderare l'incontro, il critico cinematografico e scrittore, Manlio Gomarasca.

Capelli arruffati, giacca marrone sopra la t-shirt, malgrado la pesante afa: «Adoro la freschezza di questo festival», ha salutato i presenti senza però fare riferimento alle temperature ma piuttosto al clima artistico, «per non parlare di quella Piazza, non penso che ci sia niente del genere al mondo».

Da sex-symbol giovanissimo fino a coraggioso cineasta dietro la macchina da presa, la carriera di Dillon «è stata un susseguirsi di cose inaspettate e che arrivano quando devono arrivare», racconta, «quando mi chiedono: “Che vorresti fare ora?”, non so mai cosa rispondere e di solito è il tempo a farlo per me. Sono uno a cui non piacciono le sorprese ma l'inaspettato è una cosa che ha dettato la mia vita».

Il suo esordio sul grande schermo è a soli 14 anni nel film di Jonathan Kaplan “Giovani Guerrieri” (“Over the Edge“ del 1979): «Ero giovanissimo e non ero assolutamente un professionista, ma le vite e la forza di quei personaggi mi avevano totalmente risucchiato. Ho capito subito che quella sarebbe stata la mia strada, è una cosa che non ho mai messo in discussione».

Adolescente e scatenato, per lui l'esperienza sul set - vis-a-vis con uno come Kaplan - è stata davvero intensa: «Davo tutto me stesso, ero parecchio agitato! Se da copione c'era qualcosa da rompere, io la rompevo per bene», ride, «Jonathan poi mi fomentava, mi chiamava ironicamente “Marlon” (da Brando, ovviamente) e la cosa mi faceva davvero arrabbiare, ma ci volevamo bene. Ricordo che in una scena avrei dovuto rovesciare una macchina da scrivere e sono intervenuti gli sceneggiatori: “Quella macchina ci serve, dobbiamo usarla per le revisioni del copione!”, avevano paura che gliela distruggessi!».

La consacrazione arriva pochi anni dopo con Francis Ford Coppola e l'uno-due “I ragazzi della 56ª strada“ (“Outsiders”, 1983) e “Rusty il selvaggio” (“RumbleFish”, 1983), relativamente low-budget e con ambizioni di cult. «Francis era un fissato, amava la storia del cinema ed era un citazionista incredibile», ricorda Dillon, «ci faceva vedere tutti quei film di Akira Kurosawa, John Ford e ci spiegava le scene nel dettaglio. Eravamo giovani e voleva che imparassimo». 

Un cast adolescente che, qualche volta, andava anche disciplinato: «Il modo che usava Francis per piegarti era uno in particolare, ti faceva rifare le scene decine e decine di volte, finché non cedevi. Se c'è qualcuno con cui non funzionava? Dennis Hopper, una testa calda che è poi diventato un gigante eterno. Una volta mi disse: “James Dean è la persona più talentuosa che abbia mai incontrato”, ma non sapeva di essere anche lui una leggenda».

Forse meno noto al grande pubblico ma assai apprezzato, è la sua metamorfosi in Charles Bukowski nel film “Factotum” (2005): «Quando me l'hanno proposto francamente ho subito detto no. Come tanti avevo letto i suoi libri e le sue poesie quando ero ventenne, mi sentivo troppo vecchio per la parte. Ma la verità è che lui, mentre viveva e scriveva queste cose, era trentenne come me allora. Un altro dubbio che avevo riguardava l'aspetto, e non era il solo. A convincermi ci ha pensato la sua vedova, Linda, mi ha detto: “Saresti davvero perfetto per fare Hank (era il suo soprannome, ndr.)“ e non ho capito se fosse un complimento o che», ride Dillon, «“lui non era un vanitoso, non è che gli interessasse apparire”, mi ha spiegato, ”ma sui suoi capelli non transigeva, per lui era tutto nei capelli“».

Con gli anni 2000 arriva anche l'esordio alla regia, con il coraggioso thriller “City of Ghosts” (2002, proiettato giovedì anche al GranRex di Locarno): «Anche con la regia è stato abbastanza naturale, diciamo che è capitato, ho trovato una storia che mi è piaciuta e sono partito». Destinazione Cambogia: «Le riprese sono state un'avventura abbastanza incredibile, abbiamo lavorato e girato in condizioni estreme e - in quegli anni - non è che ci fosse una grande rete di supporto per il cinema nel Paese. Non c'era giorno che qualcuno della troupe non si ammalasse o finisse k.o. per un colpo di calore. Non so esattamente quante persone fossero entrate e poi uscite dall'ospedale e devo essere sincero, mi sentivo davvero in colpa. Ricordo che c'era un uomo nello staff che mi sembrava particolarmente sofferente e sfiancato. Quando lo vedevo stavo male per lui. Poi anni dopo l'ho rincontrato a New York e mi ha detto: "Avevo iniziato a lavorare nel cinema perché mi aspettavo delle avventure, e mi è capitato solo lavorando con te”, a suo modo è stata una soddisfazione». 

A proposito di Grande Mela, che da anni è casa sua, come mai la preferisce a Los Angeles? «Diciamo che passo il mio tempo fra New York e Roma, a Los Angeles ci sono stato - e ci ho vissuto - e ci vado ancora, per lavoro. Ma devo essere sincero, è vero: a Hollywood si è fatta la storia del cinema ed è lì il centro dell'industria. Sarà la curiosità o il caso che mi hanno portato via da lì, ma io ho bisogno di cercare storie, vite e ispirazioni. In quella città semplicemente non riesco a trovarle».

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