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CANTONE"R. I. P. - Il mio funerale", il racconto delle imperfezioni delle nostre vite

10.05.21 - 06:30
Patrick Mancini mette a nudo, nel suo nuovo romanzo, i mostri creati da una società che emargina deboli e fragili.
Foto di Giada Bianchi
"R. I. P. - Il mio funerale", il racconto delle imperfezioni delle nostre vite
Patrick Mancini mette a nudo, nel suo nuovo romanzo, i mostri creati da una società che emargina deboli e fragili.
Questo libro è «un inno alla vita», ma l'autore non fa sconti: «Non sono spietato, sono amareggiato».

CUGNASCO-GERRA - L'idea di poter assistere al proprio funerale - vedendo in prima persona il cordoglio reale e quello di facciata, che altro non è che ipocrisia - ha affascinato nel tempo molti poeti e scrittori. Tutti conoscono "Vengo anch'io. No tu no" di Enzo Jannacci, ma gli esempi sono molteplici. Da qualche giorno anche Patrick Mancini si è iscritto alla lista di autori che hanno trattato l'argomento: lo ha fatto con il suo ultimo romanzo, "R. I. P. - Il mio funerale", Fontana Edizioni, con la copertina affidata all'artista ticinese Giada Bianchi.

Si tratta del terzo lavoro letterario del giornalista e scrittore ticinese, dopo "@cuorebuiorrore""#promessisposi - Stavolta tocca a te"

Patrick, quando è maturata l'idea alla base del tuo nuovo romanzo?
«Nel corso degli anni. Sono da sempre attratto dal tema della morte. Da bambino andavo a servire messa ai funerali. E non so per quale motivo "ho nel cuore" alcuni canti funebri. Mi chiedo spesso cosa ci sarà dopo. Me lo sono chiesto anche quando mi è capitato di perdere persone molto care. E mi sono spesso domandato come sarà il giorno del mio funerale. E che fine farà la mia anima. Se ci sarà qualcosa. Credo che siano domande che prima o poi si pongano tutti. Anche perché la morte, che piaccia o no, fa parte della vita». 

Potremmo definire "R. I. P. - Il mio funerale" come un "thriller morale"?
«Il testo pone il lettore di fronte a tematiche sociali attuali. Prima tra tutte quella del bullismo. Un problema serissimo che ha toccato anche me. Alle medie venivo terrorizzato da ragazzi più grandi. L'intenzione però non era quella di fare moralismi. Semmai di raccontare l'imperfezione che caratterizza le nostre esistenze. Di chiunque. Perché tutti siamo un po' bulli e un po' bullizzati. Il bianco e il nero non esistono. Le nostre personalità spesso sono contraddistinte da sfumature. A volte si pensa di essere ottime persone. E non ci si accorge che con una parola si mette in ginocchio qualcuno».

Un titolo alternativo non sarebbe potuto essere "La fiera dell'ipocrisia"?
«Sì. Siamo di fronte a un omicidio. A un giovane a cui hanno sparato alla schiena. La comunità si prodiga per mettersi in mostra. Per essere lì accanto alla bara. Con parole di circostanza. In giacca e cravatta, col vestito di circostanza e con le parole giuste. In realtà non è tanto la cerimonia funebre in sé a essere ipocrita, ma le persone che si trovano in quella chiesa. Con i loro perbenismi. Il protagonista, dalla sua bara, riesce a vedere e a sentire le persone presenti al funerale. A carpire i loro segreti più nascosti. È questa la cosa che più mi affascina. Il fatto che il "morto" tiri fuori dagli armadi tutti gli scheletri dei presenti». 

Il capitolo "Sexting" è un riferimento diretto a un noto caso della cronaca ticinese?
«Non è un riferimento diretto. Io nei miei libri non faccio riferimenti diretti di alcun genere. Però è innegabile che quella vicenda mi colpì molto. Per la violenza psicologica con cui furono costrette a confrontarsi alcune giovani donne».  

C'è altro che ha a che fare con il tuo lavoro di giornalista?
«No. Nel senso che quando scrivo una storia non voglio essere condizionato da nulla, la fantasia deve avere libero sfogo».

Nella spietatezza del tuo sguardo di autore c'è una condanna di questa vita di provincia, dove l'apparenza differisce dalla realtà dei fatti?
«Io non sono spietato. Sono amareggiato, è diverso. Se penso a un funerale in cui ho partecipato in passato, mi ricordo una frase di Padre Callisto Caldelari. Disse che avevamo creato una società mostruosa, sviluppando determinate parti e non nutrendone altre. Quelle parole non mi sono mai uscite dalla testa. Perché sono vere. È così. Oggi hai valore se sei performante, se sei bravo, se sei veloce, se non sbagli, se hai fatto questo o quello. Etichette su etichette. I deboli e le persone fragili hanno sempre meno spazio. Per fortuna ci sono anche persone eccezionali che si fermano ancora a guardare oltre le apparenze». 

Il protagonista è un ribelle rabbioso, non esente da macchie. Anzi, a tratti un mostro, come lo descrivi tu stesso. Cosa proverà il lettore, nei suoi confronti?
«Magari proverà ribrezzo, orrore. O magari pena, compassione. Dipende anche dal tipo di sensibilità di chi legge. Douglas Delfino, il giovane protagonista, è frutto della società malata che ho appena descritto. Quella che ti soffoca, che ti mette sotto pressione. Douglas è certamente un mostro. Ma non è l'unico mostro di questa storia». 

Tratteggi un quadro di un'umanità condannata, con ben poca speranza: ha influito il clima pandemico nel quale viviamo da oltre un anno?
«No. Io l'idea di questo libro ce l'avevo già in testa. E la pandemia non ha avuto alcun influsso sulla trama».

C'è un personaggio nel quale ritrovi qualcosa di te?
«Ho definito questo libro come un inno alla vita e alla sua imperfezione. Ecco, è in questo semmai che mi identifico. Nell'imperfezione. Ci si prende davvero troppo sul serio. Dimenticandoci che prima o poi finiamo tutti in una bara come il terribile Douglas». 

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