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L'impossibile normalità di un'isola straordinaria

CANTONE / VAUDL'impossibile normalità di un'isola straordinaria

23.04.21 - 06:30
"Sognando un'isola", documentario di Andrea Pellerani girato in Giappone, debutta oggi al festival Visions du Réel
AMKA FILMS
È visibile da oggi alle 11 sul sito di Visions du Réel "Sognando un'isola", documentario di Andrea Pellerani.
È visibile da oggi alle 11 sul sito di Visions du Réel "Sognando un'isola", documentario di Andrea Pellerani.
L'impossibile normalità di un'isola straordinaria
"Sognando un'isola", documentario di Andrea Pellerani girato in Giappone, debutta oggi al festival Visions du Réel

NYON - Ikeshima, nella prefettura di Nagasaki, è una delle inevitabili cicatrici lasciate dal progresso. La sua miniera di carbone è stata l'ultima a cessare l'attività in Giappone, nel 2001. Vent'anni dopo, l'isola si è quasi completamente spopolata e i residenti hanno ingaggiato una lotta contro l'avanzata della natura, che neanche troppo lentamente si sta riappropriando dei suoi spazi. Con le visite turistiche all'impianto si cercano i mezzi per la sopravvivenza materiale della comunità e per, al contempo, preservare la memoria di un'industria che «ha letteralmente salvato il Giappone nel dopoguerra», come spiega uno dei protagonisti.

Ciò che viene mostrato in "Sognando un'isola", diretto dal regista ticinese Andrea Pellerani, è lo spaccato di una normalità apparentemente impossibile ma che si concretizza nelle comuni attività quotidiane, che diventano straordinarie se inserite in quel contesto.

Il documentario, produzione Amka Films in collaborazione con la Rsi e con il sostegno della Repubblica e Canton Ticino, del fondo FilmPlus della Svizzera italiana, di Teleproduktions-Fond e del Percento culturale Migros, fa parte del programma del festival Visions du Réel (in prima mondiale, sezione "Compétition nationale”) ed è disponibile in streaming dalle 11 di oggi e lo resterà fino alla stessa ora di lunedì 26. L'autore ci ha guidati alla scoperta di quest'opera.

Come sei venuto a conoscenza di Ikeshima?
«In questi anni ho concentrato il mio interesse sulle città moderne abbandonate. Pensavo di fare un collage tra diversi luoghi in giro per il mondo ma, una volta finito in Giappone e scoperta l'isola, ho trovato qualcosa di più che un semplice insediamento dal quale le persone sono andate via: ho scovato una storia da raccontare, in una surreale scenografia dell'abbandono».

Cosa ha reso questa location speciale, rispetto alle altre che hai preso in considerazione?
«È stato fondamentale che ci fosse ancora gente a Ikeshima - anche se puoi camminare per un'ora o due nell'isoletta e non incontrare nessuno. Un "semplice" luogo abbandonato può essere solamente rievocato, mentre qui parliamo di un'entità ancora viva. Il racconto acquisisce anche una dimensione onirica, in un certo senso: è proprio quello il sogno che viene citato fin dal titolo».

Quanto sono durate le riprese?
«Sono rimasto sull'isola una decina di giorni».

Che sensazioni hai provato, girando per le strade deserte?
«Mi ha fatto pensare a un ipotetico avvenire dell'umanità: questo è ciò che potrebbe rimanere di noi. Nel passeggiare tra i palazzi invasi dalla vegetazione ti senti portato a dire: "Questo è quello che succede, senza di noi". Spaventa un po' realizzare che ciò che lasciamo, in fondo, non sia niente di eccezionale: strisce d'asfalto ed edifici deserti».

Possiamo dire che la storia che racconti sia un round dell'eterno braccio di ferro tra uomo e natura?
«In un contesto come Ikeshima diventa molto evidente il fatto che siamo noi ad avere bisogno della natura, non la natura di noi. In poco tempo la vegetazione si riprende tutto e di noi che rimane? Poco».

L'eccezionalità di questa vicenda è però tutta nel contesto...
«Sì, non c'è niente di eccezionale se non la scenografia. I bambini e i vecchietti che sono protagonisti del racconto non sono poi così diversi da milioni di altri che popolano il Giappone. È un racconto di gesti normali, che diventano straordinari - e lo spettatore li percepisce come tali - in rapporto al luogo in cui vengono compiuti. Ho avuto la sensazione, a volte, di essere un alieno che osserva questa strana colonia di terrestri attraverso una lente d'ingrandimento». 

Quale insegnamento può trarre lo spettatore?
«Questa storia serve a ridimensionare il nostro ego. Forse la mia generazione porta in sé una visione un po' catastrofica del futuro: anche io non ho mai pensato al domani con una speranza di crescita eterna... In positivo, allo stesso tempo, c'è la comprensione che ciò che importa sono gli elementi essenziali dell'esistenza: i bisogni primari, i rapporti umani, i piccoli gesti di quotidianità. Trovo emblematici gli spezzoni a scuola e l'importanza data nonostante tutto all'educazione, con un corpo docenti di 11 persone per due soli allievi. Quindi l'importanza della cultura nel suo senso più ampio e che anche gli anziani continuino a far parte del tessuto sociale».

Tra i soggetti del documentario, ce n'è uno al quale sei rimasto più affezionato?
«Sì, direi Kondo, che ci accompagna nelle primissime scene, ma anche Yamaguchi, che alla fine esprime i suoi dubbi sulle soluzioni per far restare viva l'isola. Con lui era evidente la volontà di superare la barriera linguistica e poter comunicare, anche quando la telecamera era spenta e ci siamo incontrati in giro per l'isola, senza l'interprete».

Come credi che considerino se stessi, i circa 100 abitanti di Ikeshima?
«Quelli che potevano andarsene, l'hanno fatto subito dopo la chiusura della miniera. Coloro che sono rimasti vivono normalmente: non si sentono né eroi né sopravvissuti, ma semplici persone che vorrebbero condurre un'esistenza tranquilla. A loro non piace che l'isola divenga una sorta di "parco giochi" per turisti, liberi di girare tra i palazzi e le vie (e che li considerano né più né meno che esseri eccezionali, superstiti di un'epoca passata). Gli abitanti non tengono affatto a diventare delle "attrazioni". Però tutti sperano in una rinascita e sanno che il turismo è l'unica speranza di sopravvivenza per Ikeshima. È tutto contraddittorio».

Se non fosse stata un'isola, sarebbe stato differente?
«Assolutamente sì. Mi ha affascinato che questa fosse un'isola in senso geografico e, al tempo stesso, temporale. Generalmente un luogo abbandonato ha un confine più permeabile ma qui, essendoci il mare tutt'intorno, è come se Ikeshima fosse fuori dal mondo. Sta in ciò la sua eccezionalità».

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