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CANTONEQuel piacere femminile che fa paura agli uomini

14.03.19 - 06:01
Pluripremiato e campione d'incassi “#femalepleasure” arriva nelle sale ticinesi da questa sera, la regista Barbara Miller: «Anche da noi resta un tabù»
Quel piacere femminile che fa paura agli uomini
Pluripremiato e campione d'incassi “#femalepleasure” arriva nelle sale ticinesi da questa sera, la regista Barbara Miller: «Anche da noi resta un tabù»

LUGANO - Già dal titolo è una dichiarazione d’intenti “#femalepleasure”, ovvero #piacerefemminile, il documentario di  Barbara Miller, già premiato a Locarno e campione d’incassi a nord delle Alpi.

«Volevo che si capisse subito di quello che stavamo parlando: il diritto, la lotta all’autodeterminazione sessuale delle donne, la voglia di riscoprire il piacere femminile che è ancora un po’ un tabù anche da noi», ci spiega la regista Barbara Miller, «molte ragazze per quanto riguarda il sesso non osano dire quello che loro piace, forse anche perché non conoscono il loro corpo»

Nel film le storie di cinque donne: Deborah, nata in una famiglia hassidica a New York e fuggita di casa dopo il matrimonio; Vithika, che gestisce un portale di salute sessuale in India; Rokudenashiko, artista giapponese che realizza opere basate sulla sua vulva; Leyla, attivista contro la mutilazione genitale femminile (e a sua volta mutilata) e Doris, ex-suora in Vaticano e vittima di abusi.


Come nasce questo progetto?

Per lavoro ho viaggiato in tutto il mondo e mi sono sempre chiesta, nel 21esimo secolo come siamo messi per quanto riguarda la sessualità femminile e i rapporti intimi? Osservando un po’ mi sono ritrovata di fronte una costante: donne che vivevano il sesso e  come un’imposizione, una sofferenza. Non come un piacere.

Così ho deciso di fare delle ricerche e ho capito che c’è una base antica e condivisa in diverse culture, religioni e aree geografiche.

Un esempio? Nelle 5 fedi più diffuse la donna (e la sua sessualità) è considerata origine del male. Per questo ho voluto cercare 5 persone legate alle rispettive fedi/culture e raccontare le loro storie.

Come hai scelto le protagoniste?

Volevo che fossero donne moderne, giovani, e che vivessero nelle più grandi città del mondo. Era importante che avessero il coraggio di parlare di sessualità ma anche che avessero già fatto il passo nella sfera pubblica, che sapessero cosa volesse dire esporsi.

Il caso più emblematico è quello di Leyla, che riceve costantemente minacce di morte, e ne ha ricevute ancora prima di venire in Svizzera per l’anteprima settimana scorsa.

Hanno accettato tutte?

Quando le ho contattate hanno accettato tutte, senza riserve. Questo perché prima abbiamo discusso tantissimo e ci siamo rese conto che - in fin dei conti - parlavamo tutte della stessa cosa.

Chiaro, le esperienze per quanto riguarda le culture e le fedi sono completamente diverse, ma la base, è la stessa. Questo sentimento diffuso e universale che, come donna, nel tuo corpo c’è qualcosa che non va.

Ci sono stati dei momenti difficili o particolarmente toccanti?

Penso due scene in particolare. Una, quando Doris ha raccontato degli stupri subiti in Vaticano dal suo aguzzino prete. Del fatto che nessuno le ha creduto o l’ha aiutata e poi ha confidato davanti alla camera di aver pensato di buttarsi dalla terrazza che dà su Piazza San Pietro. Sentire quella disperazione, che arriva così di punto in bianco, è stato uno shock.

Un altro momento, l’intervento di Leyla che ha mostrato a un gruppo di giovani cosa vuol dire davvero la mutilazione genitale femminile. In quella sala c’erano tante vittime e attivisti ma anche famigliari, amici che però non sapeva esattamente di cosa si stava parlando e sono rimasti sconvolti. Penso che sia stata la prima volta in vita mia che ho pianto mentre filmavo una scena.

Una reazione che hanno molti uomini quando si tirano fuori le “tematiche femminili” o la parola “femminismo” spesso e volentieri è «Eh… ma avete già tutto». Perché è così secondo te?

Io tenderei a spiegarlo con un paio di parole: insicurezza? paura? Se lasci più voce, più libertà alla donna significa anche metterti più in discussione come uomo o come ragazzo. Questo anche dal punto di vista della sessualità.

Nel porno mainstream, com’è la figura della donna? È completamente svelata, passiva, i rapporti sono spesso violenti. La clitoride, fonte di orgasmi per il 70% delle donne, dov’è?

Mi viene in mente una frase detta da Leyla nel documentario: «Pare che ci sa un coro di orgasmi femminili nel mondo», dice lei, «ma quante di queste fingono?». Se lo chiedi a un uomo probabilmente ti dirà: «A me non è mai successo».

Se la domanda la fai a una ragazza, invece, il 90% ti confessa: «Forse sì, qualche volta l’ho fatto». E cosa significa? Che in quel momento non si ha avuto il coraggio di parlare e dirlo, dobbiamo chiederci il perché.

Cosa ne pensi delle attuali “femministe 2.0 di Instagram”, quelle che dicono: «Questo il mio corpo e me lo gestisco io» e postano scatti nudi od osé?

È una domanda interessante, mi è capitato di discuterne con un gruppo di 300 ragazzi delle scuole dopo una proiezione.

Penso che la chiave di lettura è che queste donne e ragazze si mettano comunque a competere sul piano della bellezza canonica. Da una parte forse è vero che il corpo è il loro, quanto però dipende dal feedback da quello che ricevono dal fuori? 

Mi verrebbe da chiedere loro: stai facendo davvero un certo tipo di discorso di riappropriazione del tuo corpo, oppure ti rimetti sempre gli stessi panni per farti dire quanto sei bella?

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