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CANTONETerry Blue, “Only To Be There” e quella resilienza che non esiste

06.04.21 - 06:30
L'esordio del collettivo capitanato da Leo Pusterla è un disque-monstre da 28 tracce: «O tenevamo tutto, oppure niente»
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Disco-monstre per i Terry Blue.
Disco-monstre per i Terry Blue.
Terry Blue, “Only To Be There” e quella resilienza che non esiste
L'esordio del collettivo capitanato da Leo Pusterla è un disque-monstre da 28 tracce: «O tenevamo tutto, oppure niente»

MENDRISIO - Quando arriva, infine, il momento del disco d'esordio può capitare che si decida di procedere con i piedi di piombo. Tanto per l'artista, quanto per la casa discografica che lo deve lanciare. Un singolo, un Ep con qualche traccia, una raccoltina, poi si vede come va. E la conferma - così come la piena espressione - arriva a partire dal secondo, terzo album.

Non è decisamente l'approccio del ticinese Leo Pusterla e del suo collettivo musicale Terry Blue che per la sua prima produzione per l'etichetta bolognese AreaSonica ha sfornato “Only To Be There”, un "disque-monstre" da 28 tracce. Ne abbiamo parlato proprio con lui.

Ok, impossibile trattenere più a lungo la domanda: come mai un doppio album? Cosa ti/vi ha portato a una scelta così radicale, in un momento in cui quasi quasi gli EP sono già troppo?
«Sono e siamo consapevoli di quanto inusuale possa sembrare, al giorno d’oggi, una decisione del genere. Una delle prime questioni sorte prima della firma del nostro contratto con AreaSonica Records riguardava proprio la quantità di brani che avrebbero composto “Only To Be There”, ma, nonostante tutte le evidenti difficoltà che questo disco potrebbe incontrare in un contesto storico nel quale l’immediatezza del singolo risulta predominante, abbiamo comunque mantenuto la “mia” idea iniziale, ossia che questi brani non potessero essere pubblicati in modo diverso o separatamente.

Si tratta infatti di testi e composizioni che, in qualche modo, riassumono e racchiudono un periodo della mia e della nostra vita, muovendosi un po’ all’unisono all’interno della stessa “dimensione sonora”.

Dico dimensione perché è, davvero, ciò che abbiamo voluto costruire nell’arrangiamento, nella post-produzione e nel mixaggio, cercando di creare un’uniformità tra i diversi approcci che hanno caratterizzato i singoli brani. Io porto la versione “nuda” di una canzone scritta alla chitarra o al pianoforte, ciò che poi risulta dall’unione della mia idea e di quella degli altri musicisti può assumere forme inaspettate.

Quindi, nel caso di “Only To Be There”, testi profondamente interconnessi hanno trovato spazio in canzoni molto diverse l’una dall’altra. Tutte queste ragioni hanno fatto sì che il disco si facesse, in un certo senso, “da solo”, e, una volta cominciato il lavoro, abbiamo capito che o prendevamo tutti e 28 i brani o non se ne faceva nulla».

E le canzoni? Da dove (e da quando) vengono? È una ripresa di un archivio o una creazione tutta nuova?
«Le canzoni del disco, prese singolarmente, hanno tutte origini distinte. Sono state scritte in momenti e luoghi diversi così come sono state registrate in situazioni, modalità e città differenti.

Ciò che le accomuna, come dicevo prima, è più che altro l’appartenenza che esse condividono, almeno nel mio immaginario, a un momento o periodo ben definito della mia vita, una sorta di capitolo che si è inevitabilmente chiuso. Infatti i testi, che difficilmente io riesco a “chiudere” dando loro una veste definitiva, spesso si incastrano l’uno all’altro, ci sono immagini, personaggi e situazioni ricorrenti che li accomunano tutti.

Sicuramente l’idea del “luogo” è molto forte in questo disco ed è uno degli elementi si cui costruisco, in generale, ciò che scrivo. Nel caso specifico, potremmo dire che “Only To Be There” si svolge a Losanna, città in cui ho vissuto a lungo, a Milano, città in cui mi sono recentemente trasferito, a Lugano, città in cui sono nato, e in Brasile (un viaggio molto importante di qualche anno fa)».

La band è sempre la tua, o c'è qualche aggiunta particolare? Com'è stato il lavoro di ricerca di suoni e atmosfere? In libertà o in qualche modo incanalato?
«Mi piace pensare che, nel corso degli anni, nessuno sia mai “sceso dalla barca”, anzi, il progetto Terry Blue è andato ampliandosi. Matteo Mazza (batterista, compositore), Andrea Zinzi (chitarrista, compositore), Giuliano Ros (bassista, compositore) sono i “vecchi” del gruppo e hanno giocato un ruolo fondamentale della stesura dei brani in cui hanno partecipato.

Le novità di questo disco sono Eleonora Gioveni e la sua voce, che ha dato un colore nuovo all’intero disco, almeno secondo me, e Andrea Cosentino (sound engineering, produzione artistica, mix e master).

Andrea, oltre a essere diventato un carissimo amico, é stato incredibile nell’assemblare, organizzare e strutturare la ricerca sonora che caratterizza il disco e, così come Eleonora con la sua voce, credo che abbia influenzato profondamente anche il mio modo di scrivere e comporre con il suo lavoro.

Inoltre, cosa altrettanto importante, abbiamo avuto la grande fortuna di non dover sottostare a dei paletti, a livello artistico e produttivo, imposti dato che AreaSonica Records si è dimostrata fin dall’inizio molto convinta dal nostro suono».

Come, e dove, è stato assemblato il tutto? Quanto ha rotto le scatole la pandemia?
«Se dovessi fare un calcolo direi che il disco è stato registrato per il 50% in studio, per il 15% in un minuscolo appartamento nella periferia di Losanna, a un passo dal lago, per il 15% in un altrettanto minuscolo locale di Lugano e per il restante 20% a Milano, in casa mia.

Poi, naturalmente, il processo di mix e master è avvenuto nello studio casalingo di Andrea
Cosentino. Ho avuto la fortuna di partecipare in modo attivo al processo di mix (oggetto dei miei studi all’Accademia del Suono di Milano) dato che spesso imbastivamo il lavoro di sound-design sulle mie idee di missaggio (rinforzate, ovviamente, dall’esperienza e dalla conoscenza di Andrea).

Per quanto riguarda la pandemia, è innegabile quanto da un lato l’emergenza sanitaria ci abbia costretti a rivedere i programmi. Se la situazione fosse stata diversa, probabilmente saremmo riusciti a registrare l’intero lavoro nello stesso luogo, in studio... ma paradossalmente l’album avrebbe perso, almeno secondo me, una sua particolare sonorità, data proprio dall’alchimia creata da Andrea Cosentino tra registrazioni casalinghe e takes in studio.

Un altro dato importante riguarda le voci di Eleonora: anche in questo senso la pandemia ci ha permesso di concentrarci a fondo sulla stesura delle sue linee melodiche e dei suoi interventi vocali, elemento che credo abbia davvero dato una “svolta” sonora a “Only To Be There”».

Con così tante canzoni non è semplice trovare un filo conduttore, io ne ho evidenziati un paio: il viaggio, la nostalgia/lontananza, il cambiamento. Ma tu pensi che ci sia, oppure no?
«È una domanda molto interessante che, in realtà, nasconde plurime risposte al suo interno.
Credo che fondamentalmente i fili conduttori di quella che mi piace definire “narrazione” del disco siano esattamente quelli che hai evidenziato tu.

Dirò di più, credo di poter definire un concetto che di fatto racchiude questa continua riflessione riguardo al viaggio, alla lontananza e allo spostamento. Il titolo “Only To Be There” si riferisce a un’idea di resistenza, di ineluttabilità nell’idea del restare, del affrontare la quotidianità consci
dell’eventualità di soccombere sotto il suo peso.

L’idea mi era venuta, in realtà, da un concetto che, ai tempi della scuola infermieri, mi infastidiva (e mi infastidisce), ossia l’idea di resilienza. Ho sempre avuto l’impressione che ci si fosse appropriati di un termine, in realtà relativo alla proprietà dei metalli di riprendere la propria forma dopo un urto, un trauma, “umanizzandolo.

Ecco, questa idea non mi è mai piaciuta: l’essere umano non riprende la sua forma originaria dopo un trauma o una sofferenza, non ne siamo capaci. Non siamo resilienti e pensare di poterlo essere mi sembra troppo facile, come una fuga e un rinnegare il dolore. Possiamo essere resistenti, e di questa antitesi parlo durante tutto il disco».

La scelta dell'inglese calza a pennello con i suoni e le composizioni, ma non ti manca un po' italiano? Pensi di (ri)provarci in futuro?
«La lingua cantata è un mondo a parte: come hai accennato tu stesso nella domanda, credo che questo disco e più in generale le sonorità di Terry Blue siano profondamente legate a un contesto musicale e testuale di carattere anglofono.

Non c’è molto altro dietro a questa scelta: i miei ascolti e tutti gli artisti da cui attingo nel mio processo di composizione sono fondamentalmente britannici o americani. Questo, dato che penso che chiunque si inserisca in un percorso artistico debba farlo con coscienza di causa e conoscenza, fa sì che la mia musica sia difficilmente riproponibile in italiano, perlomeno questi brani.

Detto questo, cantare nella mia lingua resta uno dei progetti futuri più consolidati, ho diversi brani in cantiere che potrebbero vedere la luce presto, anche complici delle diverse nuove conoscenze che ho avuto il piacere di costruire a Milano».

 

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