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«È successo qualcosa di magico»

CANTONE«È successo qualcosa di magico»

09.11.20 - 06:30
"Vadavialcovid" ha avuto «un parto anomalo», ci spiega il frontman dei Vad Vuc Cerno, ma il risultato è notevolissimo
RICCARDO BREGA
The Vad Vuc sul palco del Teatro Sociale Bellinzona
The Vad Vuc sul palco del Teatro Sociale Bellinzona
«È successo qualcosa di magico»
"Vadavialcovid" ha avuto «un parto anomalo», ci spiega il frontman dei Vad Vuc Cerno, ma il risultato è notevolissimo

MENDRISIO - The Vad Vuc sono come uno di quei vini che, con il passare degli anni, acquisiscono sempre più struttura, profumi e sfumature. Che, insomma, invecchiando - gli anni di attività sono 20, mica pochi - migliorano.

La riprova è il loro ultimo album "Vadavialcovid", uscito venerdì e anticipato da singoli che hanno già fatto il giro delle radio e del web, l'ultimo dei quali è il recentissimo "Bud & Terence". Un disco che da qualche settimana si trova nelle mani di chi lo ha acquistato in occasione dei concerti al Teatro Sociale di Bellinzona del 25 e 26 settembre. Grazie poi al sostegno di BancaStato e alle copie vendute in quell'occasione, ci tiene a precisare Michele "Cerno" Carobbio, il frontman della band, «i costi di produzione sono tutti coperti e l'intero ricavato di ogni disco che viene acquistato va alla FCTSA (Federazione Cantonale Ticinese Servizi Autoambulanze)».

C'è una sorpresa che riguarda gli show di Bellinzona, vero?
«Possiamo dire, con ragionevole certezza, che pubblicheremo un live dei concerti al Teatro Sociale, registrati dalla Rsi. Sarà un disco singolo o doppio, vedremo in base al materiale. Ne siamo molto felici: nel gran finale eravamo tutti e 16 sul palco, compresi gli ex Vad Vuc. Un'occasione più unica che rara».

Ma c'è anche altro che vede protagonisti i fan...
«Abbiamo chiesto d'inviarci i video dei brani di questi pezzi finali che abbiamo suonato tutti sul palco, con l'idea di farci un videoclip. Ne sono arrivati una marea e tutti, anche quelli non realizzati benissimo, hanno qualcosa d'interessante».

Voi siete tra i pochi a essere riusciti a fare dei concerti come si deve, quest'anno. Ti preoccupa il futuro della musica dal vivo in questo perdurante contesto di pandemia?
«Sicuramente sì. Per me i Vad Vuc e i concerti sono sempre stati una valvola di sfogo e mi manca tantissimo suonare dal vivo e incontrare il pubblico. Fare un album è interessante, ma la cosa più bella è il concerto, è lì che godi in pieno. Ci sarà da attendere ancora prima di tornare alla normalità, sono qui che fremo».

Come è stato suonare a Bellinzona, davanti a un pubblico giustamente munito di mascherine?
«Molto strano. Sembrava di avere davanti 300 banditi del West con il volto coperto (ride, ndr). Si perde qualcosa: non potendo vedere tutto il viso non capisci se uno ride, piange, si annoia... Mi manca un sacco poter guardare in faccia il nostro pubblico, aiuta anche a capire come sta andando lo show».

Veniamo a "Vadavialcovid": lo possiamo dire che, per vari motivi, questo è il vostro album più importante?
«Non so dire se è il più importante, ma di tutti i dischi che abbiamo fatto è quello che ha avuto un parto anomalo e non logico. Nei precedenti c'era un lavoro di gruppo, a contatto in studio; questo è stato realizzato ognuno a casa propria. La cosa più sorprendente è che sia rimasta intatta l'energia che abbiamo quando suoniamo tutti insieme. Personalmente mi piace molto, molto, molto».

Come è avvenuta la lavorazione?
«Magari mandavo una traccia e poi, uno dopo l'altro, si aggiungevano le varie parti. Si ascoltava quello che era stato fatto dagli altri e si metteva un tassello sopra l'altro. Il prodotto non sarà qualitativamente eccelso, perché i mezzi erano quelli che erano. Ad esempio il Jacky, il nostro bassista, non aveva il basso con sé e non l'ha praticamente suonato in questo disco e l'ha sostituito con banjo e chitarra».

È stato un processo particolarmente complicato?
«In realtà non c'è quasi mai stato il bisogno di rifare: ognuno faceva il suo, aggiungendo note o armonizzazioni... Per me è successo qualcosa di magico: l'abbiamo registrato velocemente e anche le canzoni sono nate con più immediatezza rispetto ai nostri tempi abituali. Anche l'averlo inciso "male" dal punto di vista qualitativo ha portato dei colori nuovi. Merito anche del Mago, il nostro fisarmonicista: abbiamo dato tutte le tracce in mano a lui e dal missaggio è uscito qualcosa che ci ha fatto dire "Wow, che figo!"».

Come l'avreste chiamato il disco per i 20 anni, se non fosse arrivata la pandemia?
«Questo album non avrebbe mai visto la luce in un contesto differente. Avremmo fatto il concerto al Teatro Sociale in primavera e poi il live di quegli show. Invece il successivo lavoro in studio - con alcune delle tracce di "Vadavialcovid" - avrebbe dovuto vedere la luce nell'autunno 2021. Forse canzoni come "Kursk", "Valisa da sass" e "Bud & Terence" non sarebbero mai state scritte...».

Questo titolo - azzeccatissimo, tra l'altro - come è nato?
«L'ha suggerito il Seba. Pensavamo a qualcosa tipo "Canzoni dalla quarantena" o simili, ma poi è arrivato lui che spesso conia i titoli degli album e ha detto: "Ma sapete come dobbiamo chiamarlo? Ma vadavialcovid!" (ride, ndr)».

Cosa rappresentano, per quelli della vostra (nostra) generazione, Bud Spencer e Terence Hill? 
«Nasce dalla mole di televisione che guardi quando sei in quarantena e rivedi i film della tua adolescenza, dicendoti "Quanto sono fighi Bud e Terence". Ma anche: "Come eravamo ingenui...". Dietro questa canzone scanzonata che ho scritto io, che va presa per quello che è senza fare la morale a nessuno, c'è anche un altro pensiero. Lo spunto viene da quel ragazzo che un paio di anni fa avrebbe voluto compiere una strage alla Commercio a Bellinzona. È per questo che nel ritornello canto "Ragazzo, lascia andare quel fucile, che ce la facciamo fuori come Bud & Terence Hill". Con quattro sganassoni, che non si fa male nessuno, ed è finita lì». 

L'avete mandata a Terence Hill e Sal Borgese, che citate nel brano?
«No comment. Non te lo so dire se sono arrivate... (ride, ndr)».

L'omaggio alla vostra nazione-faro, l'Irlanda, non poteva mancare...
«Avevamo lì questo "Irish Medley" da un sacco di tempo: lo volevo mettere in "Hai in mente un koala?" del 2013 ma poi non se n'è fatto niente. Una sera, durante una chat di gruppo, l'abbiamo tirato fuori, consapevoli che non fosse facile da registrare, specialmente a distanza. Abbiamo provato e alla fine è uscito benissimo».

Davide Van De Sfroos ha costruito una "mitologia" laghée, voi state creando una galleria di personaggi e figure momò: di chi si è arricchita questa volta?
«Sicuramente del Giani Mutúr, che fa parte dell'immaginario non soltanto nostro, ma proprio locale. Tutti lo conoscono per il suo modo di essere e già in vita era una figura quasi mitologica: di lui si narravano un sacco di racconti che non si capiva quanto c'era di vero e quanto no. Ho scritto al figlio e ai nipoti per chiedere il permesso di scrivere la canzone e nel libretto c'è una sua fotografia che mi hanno dato loro. Ho scoperto quest'anno che il Giani non faceva solo il rumore del motore quattro tempi con la voce, ma che aveva corso davvero in moto. Quindi i racconti che ascoltavamo da ragazzi acquistano tutto un altro senso».

Qual è stata la molla che vi ha spinto a scrivere "Kursk"?
«Da anni pensavo di scrivere un pezzo sulla tragedia assurda di questo sottomarino russo (avvenuta nell'agosto del 2000, che costò la vita ai 118 membri dell'equipaggio). La musica è nata prima della pandemia, una sera con Albi, il violinista. L'arrivo del Covid-19 qualche giorno dopo ha fatto spostare la tematica dall'ingiustizia all'immedesimazione nei ragazzi a bordo del Kursk, che non riescono più a respirare. Il fatto di sentirsi soli, dispersi, senza nessuno che li potesse aiutare - a soli 100 metri circa di profondità - dei marinai è stato legato alle immagini delle persone ricoverate in cure intense e intubate, che lottano per un respiro nonostante fuori dalla finestra ci sia tutta l'aria del mondo. Il Covid è quindi stato un pretesto - o lo è stato il Kursk - per raccontare quello che uno può provare. Il rumore del sonar del sottomarino può anche essere quello dei macchinari nelle camere degli ospedali».

Arriva, poi, nel ventesimo anniversario dell'incidente...
«Vent'anni noi, vent'anni il Kursk... È un caso, un'altra delle magie che accompagnano questo disco».

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