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Gli OpinionistiUna settimana di “CATTIVI PENSIERI”

19.04.21 - 09:04
di Aldo Sofia
Aldo Sofia
Una settimana di “CATTIVI PENSIERI”
di Aldo Sofia

Non sono giorni molto sereni per Ignazio Cassis. Aveva dato per certa la sua trasferita a Bruxelles, per l’incontro coi vertici europei sul dossier (nell’impasse) dell’accordo quadro Svizzera-UE.

Aveva praticamente detto di considerarsi l’uomo giusto per affrontare un tema che conosce meglio di tutti i suoi colleghi di governo. Invece, no. A Bruxelles ci andrà solo Guy Parmelin.

Questione protocollare, spiegano a Palazzo: il presidente della Confederazione faccia a faccia con la presidente della Commissione UE. Ma per il ministro degli esteri ha tutta l’aria di un altro smacco, dopo che i suoi colleghi gli avevano fortemente ‘suggerito’ (imposto?) di sostituire il capo negoziatore, e suo principale collaboratore, il ticinese Roberto Balzaretti.

In più, secondo la stampa svizzero-tedesca, in settimana gli hanno pure bocciato un ‘piano B' da lui elaborato per sbloccare la crisi. Tempacci, insomma.

Ma, soprattutto, é a causa di un altro ticinese che in settimana Cassis ha dovuto masticare amaro: Marco Chiesa, presidente dell’UDC, dunque del principale partito svizzero (che nel mirino ha messo l’intero governo), ha addirittura affermato che in fondo non farebbe una gran differenza se nel Consiglio federale dovesse entrare un verde-liberale.

Il problema é che, se si concretizzassero certe previsioni, nelle prossime elezioni nazionali a rischiare di più sarebbe il partito liberale radicale. («Ha tutti contro», scrive la Nzz). E se per i liberali svizzeri si verificasse lo scenario peggiore, cioé la perdita di un consigliere federale, quale poltrona salterebbe? Proprio quella di Cassis. «Ticinesi contro», oltre Gottardo.

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Ma chi l’avrebbe mai detto. Un alto esponente della sanità cinese confessa che il vaccino anti-Covid di produzione locale «non é molto efficace». E Pechino, che ne ha già distribuito milioni di dosi in Asia e Africa, pensa ora di rendere il suo siero più «performante» cambiandone alcune componenti, prese anche dall’estero (pratica in cui i cinesi, noti per l’abilità di sottrarre tecnologia agli occidentali, sono assai esperti).

Non ci fa una bella figura il “presidente a vita” Xi Jinping, che il vaccino se lo gioca anche sul piano della competizione geo-politica planetaria. Esattamente come il suo collega russo, Vladimir Putin, che ora cerca di piazzare il suo Sputnik 5 (nome altamente evocativo della gara spaziale che contrappose l’ex Urss agli Stati Uniti) soprattutto alla deficitaria Europa.

Europa che però cincischia, nonostante la prestigiosa rivista scientifica Lancet abbia subito definito lo “Sputnik”, già all’inizio dell’anno, «efficace oltre il 90%». La reticenza europea sembrerebbe poco comprensibile. Oppure i suoi esperti si stanno ancora chiedendo come mai soltanto il 4% della popolazione russa si é fatta vaccinare col “prodotto patriottico”?

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Non fu così all’inizio. Un anno fa - pur con tutte le incertezze e gli errori dovuti all’improvvisazione e alla violenza della prima ondata - sembrava che i sistemi democratici potessero gestire la pandemia senza troppo sacrificare i propri principi liberali. Senza sindromi cinesi e russe, per intenderci.

E comunque - era la primavera del 2020, quando la paura di Covid 19 rappresentava il carburante della ‘rassegnazione’ e della sostanziale ‘adesione ‘ dei cittadini alle strategie politico-sanitarie dei governi - la popolarità dei nostri ‘decisori’ non ne soffriva affatto. Anzi, sembravano guadagnarne.

Oggi, l’aria è decisamente cambiata: stanchezza per i lockdown di varia durata intensità ed efficacia; strategie costrette dal virus a cambiare improvvisamente; incertezza degli scienziati (che non gestiscono convinzioni definitivamente cristallizzate, ma cangianti), irruzione delle ‘varianti’, prolungata assenza di vita sociale, chiusura di “luoghi deputati” agli incontri (come bar, ristoranti, teatri, stadi eccetera), tutto questo mette sempre più a dura prova i meccanismi decisionali delle democrazie.

Ecco allora che vince la richiesta di ‘liberalizzare’ il più possibile. Anche troppo, teme qualcuno, per esempio il responsabile della Task force elvetica. Anche perché in generale c’è gran ritardo in molte campagne di vaccinazione. I dati non sono del tutto tranquillizzanti. E vale anche per la Svizzera. 

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Per gli Stati Uniti termina la guerra più lunga della sua storia. Quella d’Afghanistan, durata vent’anni. Subito dopo l’annuncio del ritiro da parte del presidente americano Biden, una vignetta ci ricorda l’essenziale.

Dialogo fra due marines che salgono sull’aereo che li riporterà a casa: «Quantomeno abbiamo fatto dimenticare il Vietnam». «Sì - replica il secondo -, ma con un’altra sconfitta militare»”. Si ritirano (entro l’11 settembre, data simbolica ma, vista la débâcle, anche discutibile) americani e alleati, senza uno straccio di buon esito, una guerra ‘inutile’ suggeriscono alcuni esperti, lasciando il paese (dopo qualche, provvisorio, effimero spiraglio di convivenza e di rispetto delle donne) sull’orlo di un nuovo enorme buco nero.

Effimero governo di Kabul, tribali signori della guerra, agguerriti talebani, sopravvissuti ma tenaci tagliagole dell’Isis: sono tutti lì, pronti ad altre, sanguinose risse. Pochi (chi, in realtà?) credono che ci si possa fidare del promesso dialogo di pace.

E, ancor meno, scommettono che una volta fuori, gli occidentali potranno e vorranno aiutare un paese che, dopo aver cacciato gli invasori sovietici, ha praticamente costretto alla resa anche l’unica superpotenza rimasta. Avevamo dimenticato che in Afghanistan è sempre stato così. E ci andò a sbattere persino l’impero britannico al massimo della sua potenza.

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