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L'addio alle armi della Serbia

Le sparatorie nelle scuole in un maggio di sangue hanno riportato alla luce un problema oscuro e con radici profonde
Le sparatorie nelle scuole in un maggio di sangue hanno riportato alla luce un problema oscuro e con radici profonde

È stato un maggio da incubo per la Serbia. Nel giro di due giorni, diciotto persone sono morte e ventuno sono rimaste ferite, in due distinte sparatorie avvenute a Belgrado e a Mladenovac e Dubona, a circa 40 chilometri a sud della capitale. Nel primo caso, come è ormai noto, a sparare sui compagni di scuola ed insegnanti è stato un tredicenne armato con due pistole appartenenti al padre mentre, nel secondo caso, ad aprire il fuoco contro alcuni passanti è stato un ventunenne con un arma automatica.

ReutersProcessione religiosa a Belgrado, 25 maggio 2023, in memoria delle vittime della strage nella scuola di Vladislav Ribnikar.

Semplicemente troppe

L'opinione pubblica è rimasta scioccata davanti a episodi di simile violenza che, da decenni, sono da riferirsi più alla realtà statunitense che non a quella europea. Eppure, il senso di incredulità è giustificato fino a un certo punto se si pensa che la Serbia, secondo l'ultimo rapporto dell'agenzia Small Arms Survey, è al primo posto in Europa, e terza nel mondo, per la detenzione di armi da parte della popolazione civile. Il 39% dei serbi, secondo un sondaggio realizzato nel 2018 dal Graduate Institute di Ginevra, detiene armi da fuoco: una cifra da capogiro se si pensa che non si hanno dati certi su quante persone ne detengano anche illegalmente.

Secondo quanto riferito al quotidiano The Guardian da Maja Bjeloš, ricercatrice presso il Centro di politica e sicurezza di Belgrado, “la polizia ha detto che ci sono oltre 900 mila armi da fuoco legalmente detenute dai cittadini. Il presidente ha detto che ce n'erano 400 mila, poi due giorni dopo 700 mila. C'è molta disinformazione da parte del governo. Le stime per il totale, tra armi legali e non, vanno da 1,5 a 3 milioni ed è spaventoso”.

ReutersLe armi consegnate dopo l'appello delle autorità serbe.

Una riconsegna in massa

Subito dopo le stragi, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha concesso una amnistia per tutti coloro che detengono illegalmente delle armi, invitandoli a riconsegnarle alla polizia in via anonima e senza alcuna conseguenza legale. La polizia serba ha dichiarato di aver raccolto, solo nel primo giorno di consegna lunedì 8 maggio, oltre 1'500 armi da fuoco.

A oggi, sono state consegnate più di 13 mila armi, tra cui, anche molte granate e lanciarazzi da carro, triste eredità dei conflitti che hanno insanguinato l'ex Jugoslavia negli anni'90. Il presidente serbo, ha poi dichiarato di voler perseguire un vero e proprio giro di vite sulla detenzione di armi, introducendo controlli più severi per il rilascio delle licenze, una moratoria di due anni sul rilascio dei permessi, verifiche su quelli già emessi e pene più severe per la loro detenzione illegale.E' stata inoltre aumentata la sicurezza negli istituti scolastici, con l'assunzione di 1.200 agenti di polizia, ed è al vaglio del governo l'emanazione di norme più stringenti sull'utilizzo degli smartphone a scuola e l'uso dei social network da parte dei minorenni.

ReutersIl fiume dei manifestanti, a Belgrado.

«Era solo questione di tempo»

Il tredicenne che ha sparato alla scuola media di Belgrado, secondo quanto emerso dalle indagini della polizia serba, sarebbe rimasto sveglio fino a notte fonda per guardare video su TiKTok e un documentario su di una sparatoria in una scuola degli Stati Uniti. Se da una parte viene spontaneo, quindi, puntare il dito contro l'effetto emulativo amplificato dai social media, non bisogna però dimenticare che si tratta di un ragazzino educato all'uso delle armi dal padre che lo portava a sparare ad un poligono di tiro sito nel seminterrato dello stadio del Fk Partizan di Belgrado, nonostante in Serbia sia illegale per i minorenni maneggiare delle armi.

Le iniziative intraprese da Vučić, esponente del Partito Progressista Serbo, le cui radici politiche affondano nel nazionalismo dell'estrema destra, sono state molto lodate dai suoi sostenitori, in patria e all'estero, ma non sono riuscite a fermare l'ondata di proteste che, lunedì 8 maggio, ha portato in piazza migliaia di persone per denunciare la violenza dilagante nella società serba: «C'è troppa violenza, non so come abbiano affrontato questo problema fino ad ora» ha detto un manifestante mentre una donna, madre di un bambino in età scolare, ha dichiarato di stare molto attenta qualsiasi cosa egli faccia. Zoran Gavrilović, sociologo del Bureau for Social Research, ha affermato di non essere rimasto sorpreso da quanto successo perché «il clima sociale stava portando a questo. Abbiamo una società violenta ed era solo questione di tempo prima che il bubbone scoppiasse».

Venerdì 12 maggio, in una seconda manifestazione, denominata 'Serbia contro la violenza' e organizzata dai partiti di opposizione, si sono chieste le dimissioni del ministro dell'interno e la fine di un certa cultura della violenza alimentata dai mass media e dal partito del presidente Vučić, in carica dal 2014. Quest'ultimo, se in un primo momento, ha accusato i suoi oppositori politici di strumentalizzare la situazione, ha poi affermato che «si sarebbe dimesso presto», promettendo libere elezioni entro il prossimo settembre.

ReutersVučić, davanti all'arsenale consegnato.

Gli strascichi oscuri della guerra

La violenza di cui in tanti parlano, è una realtà strisciante ma pervasiva, di cui è intrisa la società serba, dai programmi trasmessi dalla Tv di Stato ai discorsi d'odio portati avanti dalla parte più oltranzista della politica. Ed è proprio su questo spirito belligerante, anche un po' oscuro, sul quale lo stesso Vučić si è a volte un po' adagiato.

Ciò ha fatto sì che la Serbia, davanti alla guerra di invasione in Ucraina, esprimesse la propria solidarietà con la minoranza russofona del Donbass e mantenesse un atteggiamento di apertura, se non di aperto sostegno, nei confronti del presidente russo Vladimir Putin, nonostante le pressioni del Parlamento europeo per un cambio di rotta.

Un ruolo molto importante, anche se non sempre comprensibile per chi non conosce a fondo la realtà di questo Paese, lo esercitano le tifoserie di calcio. Non è un caso, infatti, che Prigozin, a capo del Gruppo Wagner, abbia reclutato diversi ultras serbi nel proprio battaglione. Tramite il calcio, alcune tifoserie vincolano dei messaggi politici molto pericolosi volti a rinfocolare un sentimento nazionalista che rischia di far cadere equilibri precari.

 

Nell'immediatezza delle sparatorie, l'atteggiamento del presidente è parso poi confuso e approssimativo e se, in occasione della prima sparatoria, si era dilungato a raccontare dettagli privati del minorenne che niente c'entravano con la sparatoria, in occasione della seconda, Vučić aveva addirittura parlato di “attacco terroristico” per via della maglietta con il numero ottantotto indossata dall'assassino. Tale numero, infatti, viene usato dai gruppi neonazisti come un saluto, non evidente, al Fuhrer, mentre, in verità, era un mero ricordo di una gita scolastica.

L'immagine del presidente serbo è parsa ancora più appannata dopo che il New York Times ha pubblicato un articolo dal quale emergono gli stretti legami che uniscono Vučić e Veljko Belivuk, capo di una banda criminale serba accusata di diversi omicidi e traffico di droga, che lo avrebbe aiutato a cementare il consenso politico della tifoseria serba nei suoi confronti.

Il problema della detenzione delle armi da fuoco, quindi, sarebbe sola la punta dell'iceberg di una serie di problemi che gravano su di un Paese che, negando il proprio passato, non riesce a costruirsi un solido futuro.


Appendice 1

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ReutersProcessione religiosa a Belgrado, 25 maggio 2023, in memoria delle vittime della strage nella scuola di Vladislav Ribnikar.

ReutersIl fiume dei manifestanti, a Belgrado.

ReutersVučić, davanti all'arsenale consegnato.

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