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Quelle parole malate che rendono difficile curare

Il caso della schizofrenia, un nome che è un problema per chi ne soffre e per chi la cura. Vi raccontiamo come mai
Il caso della schizofrenia, un nome che è un problema per chi ne soffre e per chi la cura. Vi raccontiamo come mai

«Come ‘divino’ e ‘demoniaco’, ‘schizofrenico’ è un concetto meravigliosamente vago nel suo contenuto e terribilmente spaventoso nelle sue implicazioni». Sono parole di Thomas Stephen Szasz, psichiatra e attivista ungherese naturalizzato statunitense.

Professore emerito di psichiatria presso lo Health Science Center, della State University di New York, Szasz si batté tutta la vita contro le definizioni di malattia mentale, capaci di rappresentare una condanna per la persona che soffre di tale patologia.

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Il nome del male

Secondo il noto psichiatra, la schizofrenia, nello specifico, è un mero nome che racchiude in sé svariate possibili disfunzioni neurologiche e diversità comportamentali, mentre, per essere tale, una malattia deve essere in qualche modo misurabile e verificabile in modo scientifico.

Secondo la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, Oms, il nome di una malattia «dovrebbe consistere in termini descrittivi generici, basati sui sintomi che la malattia provoca e termini descrittivi più specifici, quando sono disponibili informazioni esaurienti su come si manifesta la malattia e se l’agente patogeno che causa la malattia è noto, dovrebbe far parte del nome».

A tal proposito, proprio Thomas Szasz sosteneva che «non esiste la schizofrenia perché non è mai stato scoperto ‘alcun schizococco», il batterio della schizofrenia, capace di generare tale malattia. Le parole dello psichiatra erano volutamente provocatorie, ma sono tornate di forte attualità nell’ambito del dibattito se, il cambiare nome alle malattie mentali, possa servire per attenuare, se non cancellare, lo stigma sociale che ad esse si accompagna.

Lo stigma di una parola

Linda Larson, malata di schizofrenia e con vari tentativi di suicidio alle spalle, riesce, dopo anni di cure mediche, a convivere con la propria malattia e, interpellata dal New York Times, ha confermato che «le persone sentono la parola schizofrenia e pensano violento, amorale e sporco».

Delle modifiche simili sono state condotte, con successo, con riguardo ad altri termini che, connotavano in maniera negativa, una malattia: il mongolismo è stato rinominato ‘Sindrome di Down’ nel 1965, la psicosi maniaco-depressiva è diventato ‘Disturbo Bipolare’ nel 1980, mentre la lebbre è stata rinominata ‘Morbo di Hansen’ nel 1952.

Dopo tale cambio di denominazione, anche se non è stato cancellato definitivamente lo stigma sociale collegato a tale tipo di malattie, si è comunque ottenuto il notevole risultato di considerare non più accettabili termini offensivi come ‘mongoloide’ o ‘ritardato’, un tempo di uso comune.

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Schizofrenia, che dice l'etimo

Attualmente, invece, si dibatte della opportunità di modificare il termine schizofrenia, che deriva dal greco ‘schizein, scissione, e phrén, mente, ossia ‘scissione della mente’ e che dovrebbe descrivere una psicosi cronica caratterizzata da gravi alterazioni delle funzioni cognitive e percettive della persona tali da compromettere le normali attività di vita della stessa.Il termine fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1908 per sostituire quello di ‘dementia precox’ che, secondo lo studioso, non era adatto a identificare con precisione tale tipo di disturbo dissociativo.

Bleuler, infatti, pensava di introdurre un concetto di malattia più ampio denominato ‘gruppo delle schizofrenie’, che comprendeva un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate da decorso ed esito diversi.

Tale termine è stato poi recepito dai principali sistemi di classificazione dei disturbi mentali sviluppati a partire dalla metà del XX secolo e, anche se nei decenni successivi, il concetto diagnostico ha subito delle revisioni, la schizofrenia è ancora classificata tra i ‘disturbi mentali e comportamentali’ e non ancora come una vera e propria malattia con una eziopatogenesi certa.

Contro stereotipi e pregiudizi

Di sicuro, la schizofrenia è, tra i disturbi mentali, quella maggiormente associata a stereotipi e pregiudizi ed è diventata, nel tempo, sinonimo di pericolosità sociale e imprevedibilità. Nel sentire comune, infatti, le persone schizofreniche vengono immaginate come violente e inaspettatamente manesche e fuori controllo e, di conseguenza, da tenere isolate.

Anche per tale motivo, in molte parti del mondo, le associazioni dei pazienti e familiari di persone affette da schizofrenia, hanno cominciato a contestare l’utilizzo di tale termine, che lede profondamente l’immagine pubblica delle persone affette da tale disturbo.

Come ha dichiarato recentemente una pazientemente intervistata dal New York Times «il termine schizofrenia non si è evoluto allo stesso modo delle terapie». Un’analisi relativa alle notizie diffuse dai media, ha messo in evidenza che viene data molta enfasi a quelle che vedono una persona affetta da schizofrenia quale aggressore, mentre, nella maggior parte dei casi, sono proprio queste persone a subire violenza e aggressioni di vario genere.

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Nel dicembre del 2021, la rivista scientifica Schizophrenia  Research ha pubblicato i risultati di un questionario sottoposto a diverse centinaia di persone e volto a indagare quanto fosse percepito come discriminatorio tale termine. Secondo il 71% delle persone partecipanti al sondaggio, il temine’ schizofrenia’ risulta stigmatizzante mentre il 74% di essi si è detto favorevole a sceglierne uno nuovo. La questione non sarebbe solo di natura linguistica ma comporterebbe un radicale cambiamento della qualità di vita delle persone coinvolte, sia dei pazienti che dei loro familiari, oltre che del personale medico stesso.

Secondo Raquelle Mesholam-Gately psicologa dell’Università di Harvard che ha condotto lo studio sui risultati del questionario, molti medici sono inibiti dal comunicare la diagnosi al paziente proprio perché condizionati dalla percezione che si ha comunemente di questa malattia. Ciò determinerebbe un ritardo nel dare inizio alla terapia con conseguenze anche gravi per la persona interessata.

Là dove le cose sono già cambiate

In Giappone, dove il cambio di denominazione è avvenuto nel 1993, si è visto un netto miglioramento della situazione: se prima, gli psichiatri giapponesi comunicavano la diagnosi di schizofrenia solo al 7% dei pazienti, ed al 37% dei loro famigliari, con la nuova denominazione il 78% dei pazienti, e la quasi totalità dei famigliari, vengono informati della malattia.

L’86% degli psichiatri nipponici ammette inoltre di trovare più facile relazionarsi con il paziente e, i benefici della diminuzione dello stigma sociale tendono a perpetuarsi a lungo termine. La parola schizofrenia è stata sostituita con ‘Sindrome da Disregolazione dell’integrazione’, proposta nel 2002 dalla Società Giapponese di Psichiatria e Psicologia, Jsnp, e riconosciuta ufficialmente nel 2005 dal Ministero della Salute giapponese.

Anche ad Hong Kong, nel 2001, il termine schizofrenia è stato sostituito con ‘Disregolazione del pensiero e della percezione’, mentre in Corea del Sud, su proposta dell’Associazione dei Neuropsichiatri Corani e della Società Coreana per la Ricerca sulla Schizofrenia, è stata introdotta, nel 2021, la denominazione ‘Disturbo della sintonizzazione’.

Nello stesso anno, anche a Taiwan, in occasione del 51° Congresso della Società Taiwanese di Psichiatria, è stato proposto il termine ‘Disfunzione del pensiero e della percezione’. Da quanto accaduto in questi Paesi asiatici, è possibile affermare con certezza che il cambio di terminologia ha attenuato lo stigma sociale nei confronti di coloro che sono affetti da schizofrenia, ed ha migliorato la loro qualità di vita, oltre che quella dei loro famigliari, potendosi curare prima e alla luce del sole, senza sentire la necessità di nascondere la propria patologia.

Il tenue coro dei contrari

Coloro che si dicono contrari a un tale tipo di operazione, la ritengono inutile, se non dannosa, in quanto ritarderebbe l’accesso alle coperture assicurative e agli assegni d'invalidità. Quel che è certo, nel discutere di un tema tanto importante, è la necessità che vi sia un coinvolgimento di tutte le parti interessate, i pazienti ma anche i medici, i ricercatori e la stessa opinione pubblica, che andrebbe educata a un nuovo modo di percepire tale condizione attraverso delle campagne informative ed educative.

Le parole hanno un potere, posso definire le persone nel bene e nel male, diventando, in certi casi,  gabbie opprimenti dentro le quali la persona si sente morire. Il dibattito sulla proposta di cambiare il termine ‘schizofrenia’ è appena all’inizio, ma vale la pena continuare a portare avanti la discussione, se ciò può comportare un miglioramento nella vita delle persone che convivono con una tale gravosa realtà.


Appendice 1

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