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Anche la migliore di sempre può crollare

Invincibile ma fragile. Il caso di Simone Biles ha riportato i riflettori sul problema della salute mentale nello sport
Invincibile ma fragile. Il caso di Simone Biles ha riportato i riflettori sul problema della salute mentale nello sport

«Sento che non mi sto divertendo più come prima. So che questi sono i Giochi, volevo farli ma in realtà sto partecipando per altri più che per me. Mi fa male nel profondo che fare ciò che amo mi sia stato portato via. Non appena salgo in pedana siamo solo io e la mia testa e lì ci sono demoni con cui devo confrontarmi».

Una ragazza versa lacrime amare sul fallimento della propria esperienza ai Giochi olimpici, ma non è una ragazza qualunque. È Simone Biles, oro olimpico a Rio nel 2016, la prima ginnasta nella storia ad aver vinto 5 titoli mondiali nel concorso individuale e la prima a vincerne tre consecutivamente. È inoltre la prima statunitense ad aver vinto 7 titoli nazionali All-Around oltre a essere diventata, nel 2019, la ginnasta più decorata della storia dei campionati del mondo.

Un asso pigliatutto, insomma, una vincente, un'atleta che per anni ha fatto incetta di qualsiasi medaglia fosse in palio. Tim Dagget, ex ginnasta statunitense e commentatore sportivo, durante la finale al corpo libero alle Olimpiadi di Rio, disse che «è la festa di Simone e tutti gli altri sono solo ospiti». Per tale motivo, era tra le atlete più attese dei Giochi ma all’appuntamento con la storia non si è presentata l’atleta vincente e sicura di sé ma una ragazza, disorientata, spenta, fallibile, vittima di un vero e proprio crollo emotivo. Da qui la decisione di ritirarsi dalla competizione a squadre della ginnastica artistica e resta il dubbio che possa recuperare in tempo, sul piano fisico e psicologico, per potersi presentare al concorso individuale.

ReutersSimone Biles

La Federazione USA aveva parlato di «problema medico», essendosi presentata alle finali All-Around con un piede vistosamente fasciato, ma la verità è che i problemi di Simone sono soprattutto mentali. In gergo tecnico si chiamano ‘twisties’ e riguardano il senso di vuoto, di spaesamento. Come se l’altleta, durante la gara perdesse consapevolezza del proprio corpo. «Devo fare ciò che è giusto per me - ha dichiarato la Biles - e concentrarmi sulla mia sanità mentale e non compromettere la mia salute e il mio benessere. Per questo ho deciso di fare un passo indietro e lasciare che le mie compagne facessero il lavoro, e lo hanno fatto bene. Sono vice campionesse olimpiche, è qualcosa di cui possono essere molto orgogliose perché l’hanno raggiunto senza di me e non credo che ne fossero consapevoli prima».

Il peso del mondo sulle spalle a 24 anni
Solo pochi giorni fa, Simone Biles aveva scritto sul suo account Instagram: «Sento tutto il peso del mondo sulle spalle». Una frase che suona, ora più che mai, come un grido d’aiuto, un segnale d’allarme che non è stato, forse, colto nella sua gravità. All’atleta sono arrivate moltissime manifestazioni di solidarietà e Sarah Hirshland, ceo del Comitato olimpico e paralimpico degli stati Uniti ha dichiarato che «Simone ci ha reso orgogliosi. Orgogliosi di quello che sei come persona, compagna di squadra e atleta. Applaudiamo alla tua decisione di dare priorità al tuo benessere mentale sopra ogni cosa e ti offriamo pieno supporto».

GettySimone Biles con la compagna di squadra Jordan Chiles.

Per una fuoriclasse come lei, le imperfezioni accumulate durante le prove a squadre, con una modestissima prestazione al volteggio, devono aver incrinato la scorza di invulnerabilità costruitasi in anni di successi. Il peso della perfezione, l’ansia da prestazione, il dovere di non deludere le aspettative devono essere stati un peso insostenibile per una ragazza di 24 anni che calca le scene da quando era giovanissima. E giovanissima aveva incontrato il suo orco: Larry Nassar, l’ex coordinatore medico della nazionale statunitense di ginnastica artistica, condannato a 176 anni di carcere per aver abusato di centinaia di giovani ginnaste.

Anche la Biles era stata vittima della sua violenza brutale e la ferita di un tale orrore l’aveva portata a dichiarare che non avrebbe mai permesso a sua figlia di far parte della squadra di ginnastica artistica statunitense perché «non è un ambiente sicuro per una ragazza». Un filo invisibile sembra unire Simone Biles a un’altra grandissima atleta, vittima anch’essa di un crollo mentale ed emotivo che ha scosso i Giochi olimpici: Naomi Osaka. La pluripremiata tennista giapponese, numero due del tennis mondiale, 4 volte vincitrice di Slam.

GettyNaomi Osaka.

«È ok non essere ok»
La Osaka è stata eliminata dalle Olimpiadi al terzo turno del torneo singolare femminile. Già negli scorsi mesi, la tennista giapponese era stata vittima di un crollo mentale e aveva disertato due fra i principali tornei internazionali di tennis, il Roland Garros e Wimbledon, proprio a causa delle sue condizioni di salute mentale. Naomi Osaka si era presentata alle Olimpiadi di Tokyo con una certa voglia di riscatto ed era stata prescelta anche come ultimo tedoforo, incaricato dell’accensione della fiaccola olimpica. L’incredibile eliminazione al terzo turno è stata una cocente delusione per la campionessa che ha dichiarato che «per me ogni sconfitta è una delusione ma questa delusione fa schifo più delle altre».

La tennista non usa mezzi termini per descrivere il proprio stato d’animo e ha dichiarato che «le pressioni su di me qui sono tantissime. Ma sono alla prima Olimpiade e non sono stata capace di reggere questa pressione». Un problema analogo l’aveva indotta a ritirarsi dal Roland Garros e da Wimbledon, pur di non sottoporsi all’incontro con i giornalisti che seguono l’incontro. All’epoca aveva dichiarato di «aver sofferto di depressione dallo Us Open del 2018 ed ho faticato molto a convivere con tutto questo. Chi mi conosce sa che sono introversa spesso ho le cuffie che mi aiutano a controllare la mia ansia sociale». Cuffie che ha usato anche alle Olimpiadi, nonostante negli spalti non ci fosse nessuno che potesse tifare contro, e che non sono riuscite a tenerla comunque lontana dall’ansia e dalla depressione.

«Dovrei essere abituata alla pressione - ha dichiarato la tennista di origine haitiane e giapponesi ma cresciuta negli Stati Uniti - ma forse è ancora più forte perché ero ferma da troppo tempo. Almeno ho perso al primo turno». La Osaka è stata una delle prime atlete ad aver parlato chiaramente dei problemi di salute mentale degli atleti: un argomento considerato tabù in quanto va a incrinare quell'immagine di perfezione e invincibilità che caratterizza, nell’immaginario collettivo, la figura dello sportivo. Invece la tennista nipponica, durante una intervista a Time Magazine aveva dichiarato che «è ok non essere ok», motivando la sua decisione di sottrarsi alle interviste post partita dei torni internazionali a cui doveva partecipare.

ReutersNaomi Osaka lascia il campo dopo l'eliminazione a Tokyo 2020.

Per questo suo rifiuto, la Osaka era stata multata di 15 mila dollari ed era stata minacciata che, il protrarsi di tale comportamento, avrebbe potuto comportare anche la sua squalifica. Al Time aveva spiegato che «gli atleti sono esseri umani. Abbiamo il privilegio di fare i tennisti e siamo devoti alla nostra professione, ma non conosco un altro lavoro dove un’unica assenza venga così stigmatizzata. Non dovresti dare spiegazioni dei tuoi sintomi, dovresti avere il diritto alla privacy».

Phelps, Williams, Beard... Una lunga lista
La verità è che i problemi di depressione sono molto più frequenti tra gli atleti di quanto si pensi. Michael Phelps, il campione di nuoto statunitense vincitore di 23 ori olimpici, aveva confessato di aver pensato al suicidio. «Dopo ogni Olimpiade - aveva confessato il campione - cadevo in depressione. La prima volta è successo nel 2004, la droga era un modo di scappare. Nel 2012 passavo la vita a letto, non volevo vivere. Le persone hanno paura di parlare dei loro disagi e per questo il tasso di suicidi aumenta». I giocatori di basket A’ja Wilson, DeMar DeRozan e Kevin Love hanno parlato della loro depressione mentre la nuotatrice statunitense Amanda Beard, che ha iniziato la sua carriera all’Olimpiade di Atlanta a soli 14 anni, nel suo libro ‘In The Water They Can’t See You Cry’ (Nell’acqua non ti possono vedere piangere), ha confessato di aver sofferto di autolesionismo. Nel 2018 era stato il turno di Serena Williams di parlare, senza falsi pudori, della depressione post-partum che l’aveva colpita dopo la nascita della figlia Alexis Olimpia e lo stesso era capitato, nel 2016, alla sua collega bielorussa Viktoria Azarenka.

Secondo una ricerca della rivista Frontiers in Psycology, pubblicata nel 2017, il 20% degli sportivi soffre di depressione e la percentuale aumenta con il crescere dell’età e l’avvicinarsi della fine della carriera. Il parlare francamente delle debolezze, e delle difficoltà psicologiche che ci si trova ad affrontare durante la propria carriera sportiva, è di fondamentale importanza: non solo contribuisce ad umanizzare l’atleta, troppo spesso scambiato per una macchina acchiappa titoli, ma serve ad aiutare chi, trovandosi nella medesima situazione, è incentivato dal suo esempio a chiedere aiuto.