Cerca e trova immobili

Botte, sangue, umiliazioni: quando il carcere è un inferno

La storia delle violenze a Santa Maria Capua Vetere che hanno scosso e diviso l'Italia intera
La storia delle violenze a Santa Maria Capua Vetere che hanno scosso e diviso l'Italia intera

Imago/PacifcPressAgency

«Da oggi comando io e appartieni a me. Lo Stato sono io» e poi giù botte da orbi. I video, in possesso della procura di Santa Maria Capua Vetere, non lasciano spazio a dubbi su quanto successo nel carcere cittadino ‘Francesco Uccella’.

Nelle oltre duemila pagine di ordinanza, il gip Sergio Enea definisce quanto accaduto «una orribile mattanza» mentre la direttrice del carcere Elisabetta Palmieri definisce «agghiaccianti e ingiustificabili» le immagini raccolte dalle telecamere di videosorveglianza che si riferiscono al pomeriggio del 6 aprile del 2020.

La ministra della Giustizia Marta Cartabia dichiara senza mezzi termini che quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è «Un tradimento della Costituzione (...) Un offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia Penitenziaria deve portare con onore per il difficile compito che è chiamato a svolgere».

Dopo quanto successo, invece, la divisa dei 117 indagati, di cui 52 sottoposti a misure cautelari, sembra macchiata per sempre dal sangue dei detenuti picchiati e torturati nel reparto Nilo. Un vero e proprio terremoto giudiziario che ha coinvolto, oltre agli agenti di Polizia Penitenziaria e alcuni funzionari del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, anche il provveditore delle carceri in Campania. Ma come è potuto succedere?

Imago/PacificPressAgency

La goccia della pandemia 

Per capire ciò che è successo dentro il carcere incriminato, bisogna tornare indietro al 5 aprile dello scorso anno quando, al ‘Francesco Uccella’, scoppia la protesta dei detenuti che chiedono test e mascherine dopo l’accertamento di un caso di Covid all’interno del reparto. In tutta Italia la situazione nelle carceri, nel pieno della prima ondata di contagi da Covid, è molto preoccupante e gli stessi detenuti temono una incontrollata diffusione del virus a causa delle condizioni di vita che conducono all’interno delle strutture carcerarie.

In tante carceri italiane, come in quello di Santa Maria Capua a Vetere, scoppiano delle violente proteste. In questo caso specifico, 150 detenuti occupano sei sezioni del reparto Nilo e, utilizzando delle brandine, sbarrano gli accessi al reparto impedendo agli agenti di Polizia Penitenziaria di entrare. I detenuti diranno che si è trattata di una protesta pacifica mentre gli agenti riferiranno di pentolini di acqua e olio bollente che gli sono stati rovesciati addosso.

Quale che sia la verità, la sera dello stesso giorno la situazione torna tranquilla e la direzione del carcere, affidata a una sostituta della dottoressa Palmieri, assente per motivi di salute, riesce ad assicurare ai detenuti dei test e misure di protezione con la garanzia che il loro comportamento non sarà punito in alcun modo.

Una notte infernale 

La notte però la situazione cambia. Circa 300 poliziotti, sia in servizio presso il carcere ‘Francesco Uccella’, sia provenienti dal Gruppo di supporto agli interventi, coperti da caschi e mascherine, danno inizio a una ‘perquisizione straordinaria generale’ che ha il sapore di rappresaglia. Si parla di manganellate, sputi, calci e urina versata loro addosso. I detenuti vengono costretti a mettersi con la faccia contro il muro per non vedere chi li sta picchiando.

Un recluso viene minacciato di una ispezione anale con il manganello perché gli agenti sospettano che possa nascondere un telefono cellulare. Viene picchiato selvaggiamente anche un detenuto in carrozzina mentre un altro, colpito più volte, viene messo in isolamento e lasciato senza cure. L’uomo morirà un mese dopo a causa dell’assunzione massiccia di farmaci: per la Procura si tratta di morte in conseguenza di altro reato mentre per il gip di suicidio.

«Rasati, picchiati, massacrati» 

Lo stesso capita ad altri due reclusi che subiscono un trattamento ‘speciale’ particolarmente duro, riportando lesioni guaribili in 20 giorni e traumi psichici. Un detenuto sarebbe stato picchiato per ore e lasciato per diverso tempo nell’area passeggio dove gli agenti lo avrebbero insultato e minacciato dicendogli «Napoletano di merda, vi dobbiamo rompere il culo, ora non state tranquilli neanche quando dormite, vi veniamo a prendere di notte».

Poi, con altri 14 detenuti, l’uomo è stato posto in isolamento preventivo nel reparto Danubio, senza che gli venissero fornite lenzuola, cuscini e biancheria di ricambio e senza essere visitato da un medico pur avendo riportato lesioni gravi.

Un altro detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere denuncia i fatti già il 17 aprile dello scorso anno. Parla di detenuti fatti passare tra due ali di agenti in divisa antisommossa e presi a manganellate con ferocia. «Ci hanno scaraventato fuori dalle celle e massacrato fino a che abbiamo raggiunto il cortile - racconta il detenuto ora agli arresti domiciliari - e poi costretto a fare il percorso a ritroso per essere picchiati ancora. Ad alcuni, tenendoli bloccati, hanno rasato i capelli e la barba».

Imago/Zuma Wire

Gli atti legati a tali provvedimenti sarebbero stati falsificati, cambiando le date e motivandoli con episodi di resistenza e aggressione ai danni degli agenti penitenziari. Secondo quanto emerso dall’indagine, la ‘perquisizione’ condotta nel reparto Nilo è stata una azione coordinata al fine di punire la protesta della mattina precedente.

Dalla ricostruzione delle conversazioni intercorse tra gli agenti coinvolti, rimangono pochi dubbi su quali fossero le reali intenzioni: «Li abbattiamo come vitelli», «domani chiave e piccone in mano» o «il reparto Nilo deve essere chiuso per sempre. Il tempo delle buone azioni è finito» sono solo alcuni esempi delle dichiarazioni d'intenti degli agenti carcerari. La situazione cambia quando si inizia a parlare del fatto che ci sia una indagine in corso sugli episodi verificatisi il 6 aprile dello scorso anno.

Imago/Zuma WireI sindacati dei poliziotti uniti in segno di solidarietà nei confronti degli agenti indagati.

L'ansia per le indagini 

Nelle chat, dove sono presenti anche il direttore del carcere e il provveditore campano, si inizia a temere il peggio: «decapiteranno mezza regione» dicono i più, preoccupati del fatto che i carabinieri abbiano acquisito le immagini registrate dal circuito di videosorveglianza. Per il gip incaricato c’è stato anche un tentativo di depistaggio dovuto al fatto che gli indagati hanno cercato di convincere i carabinieri che le telecamere non siano in funzione.

I militari dell’Arma, invece, su delega della Procura riescono ad acquisire gli hard disk delle stesse scoperchiano il vaso di Pandora. Come dichiarato dagli inquirenti, l’operazione sarebbe stata predisposta «a scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale di polizia penitenziaria».

Una operazione che trova giustificazione ai vertici dell’amministrazione penitenziaria in quanto «il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così»: il mancato intervento armato in occasione delle proteste del 5 aprile 2020 avrebbe ingenerato, nel personale carcerario, un senso di frustrazione che ha trovato sfogo in atti di violenza destinati, in un’ottica distorta, a ristabilire le gerarchie all’interno del carcere campano.

Imago/Antonio BalascoElisabetta Palmieri, direttrice del carcere, parla con i giornalisti il giorno dopo la pubblicazione dei video delle violenze

«Misure degradanti, inumane»

Dall’ordinanza del gip emerge un quadro sconfortante di «misure di rigore non consentite dalla legge, mediante una pluralità di azioni contrarie alla dignità e al pudore, degradanti e inumane, consistite in percosse, lesioni, attuate a colpi di manganello, calci schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni ad inginocchiamento, induzione a permanere in piedi per un tempo prolungato faccia al muro e connotate da imposizioni di condotte umilianti, come la rasatura di barba e capelli».

Le prime segnalazioni arrivano sul tavolo di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, qualche settimana dopo visto che, nei giorni di pandemia, i colloqui sono stati sospesi e sono state vietate anche le videochiamate.

Ciambriello sporge denuncia, supportato dal garante di Napoli Pietro Iola e l’associazione Antigone, facendo così partire l’inchiesta della Procura. A giugno 2020, inizia a circolare la notizia dei pestaggi avvenuti al carcere Uccella e la notifica degli atti d'indagine viene consegnata dai carabinieri proprio davanti al carcere. Molti poliziotti salgono sul tetto per protesta urlando «Abbiamo solo cercato di riportare la calma tra i detenuti».

Ma la scusa non regge e l’inchiesta va avanti, facendo luce su episodi di violenza ingiustificabile. A oggi, moltissimi indagati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e nessuno ha ammesso gli addebiti a proprio carico, nonostante le inequivocabili immagini dei video li inchiodino alle loro responsabilità.


Appendice 1

Gallery


Imago/Antonio Balasco

Imago/PacifcPressAgency

Imago/PacificPressAgency

Imago/Zuma WireI sindacati dei poliziotti uniti in segno di solidarietà nei confronti degli agenti indagati.

Imago/Antonio BalascoElisabetta Palmieri, direttrice del carcere, parla con i giornalisti il giorno dopo la pubblicazione dei video delle violenze

Imago/Zuma Wire