Si fallisce a tavolino per ricominciare impuniti, contando su un sostegno malato alla libertà imprenditoriale. Così le imprese bruciano molto più di quanto il Cantone investa (119%)
LUGANO - Oltre 2 miliardi e mezzo di franchi perduti in tutta la Svizzera, nel 2016, pari al 3,8% dei ricavi della Confederazione e al 30% dei suoi investimenti. In Ticino, sono 198'683 milioni di franchi, pari invece al 5,5% dei ricavi cantonali e addirittura al 119% degli investimenti netti. I numeri parlano chiaro: qui i fallimenti crescono in misura molto più marcata, provocano danni molto più consistenti; e mentre nel resto del Paese, quantomeno, a ciascuna azienda che chiude corrispondono importi in calo, sia pur lieve, in Ticino aumentano anche le somme che di volta in volta vanno in fumo, con un indice medio delle perdite 3,5 volte superiore della media nazionale.
Uno «strumento di profitto» - Eppure, a preoccupare non sono neppure cifre così allarmanti. È piuttosto un atteggiamento generalizzato che, specie negli ultimi cinque anni, sta trasformando il fallimento non in una misura ultima e inevitabile, ma in uno «strumento di profitto». La crisi, insomma, non c'entra: o le aziende che chiudono non si ripresenterebbero di nuovo e a tempi record sul mercato, anche 5 volte in poco più di sei anni, con gli stessi nomi, la stessa forza lavoro, reimpiegata in cambio della rinuncia al salario mai percepito; consapevoli di andare incontro a «un'impunità quasi totale», osserva Vincenzo Cicero di Unia, sotto forma di precetti esecutivi che cadono nel vuoto, privi di conseguenze concrete. «In otto casi su dieci ci sono reati penali, ma raramente si arriva alla denuncia».
Nessuna conseguenza penale - A far scattare il campanello d'allarme, gli operai che ormai «ciclicamente si presentano ai nostri sportelli con mesi di arretrati» e che fanno dire che «il fallimento e il ricorso alle indennità di insolvenza si stanno trasformando da strumento eccezionale a strumento ricorrente». Questo per metterla giù in maniera più soft. Per essere più severi, invece, si tratta di «fallimenti a scopo di lucro», non usa mezzi termini il sindacato, deciso a intraprendere una battaglia contro un malcostume che - dice Matteo Poretti - è diventato «un'urgenza sociale, economica e finanziaria».
Non pagano le tasse, ma i fornitori sì - Prolifera grazie alla «complicità della politica, che dà un sostegno troppo incondizionato alle imprese. La prima preoccupazione, nel sistema capitalistico elvetico, è non mettere ostacoli alla libertà imprenditoriale». Così a perderci è però soprattutto lo Stato, privato degli introiti che sarebbero dovuti derivare da imposte e tasse, mentre le aziende paradossalmente ci guadagnano: sia evitando di sborsare quanto dovuto; sia prelevando sempre più spesso anche gli oneri in busta paga, senza poi però versarli; sia grazie ai prezzi concorrenziali che così si possono permettere. Perché alla fine si tratta di «aziende che producono»: non è un caso se le perdite subite dai fornitori non superano il 3%, una percentuale ridicola che racconta di come l'azienda, in effetti, continui a operare. «Si paga il materiale, per tenersi il lavoro».
Non si salva nessuno. E stavolta l'Italia non c'entra - Ormai il fallimento non è più dunque l'estrema ratio, e una strada da intraprendere con vergogna, ma «uno strumento di gestione aziendale», osserva Nicolas Bianchi: che riguarda l'edilizia, l'artigianato, ma in fondo nessun settore o dimensione particolare. «C'è di tutto. Il fenomeno è davvero trasversale. E non è vero che sono imprese venute dall'Italia. Non scarichiamo sugli altri le nostre colpe: c'è tutto un indotto dietro e un interesse economico locale fortissimo».