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Due anni senza il Duca Bianco

REGNO UNITODue anni senza il Duca Bianco

10.01.18 - 06:00
In queste ore, due anni fa, il mondo intero veniva a sapere della morte di David Bowie
Keystone
Bowie nel 2004.
Bowie nel 2004.
Due anni senza il Duca Bianco
In queste ore, due anni fa, il mondo intero veniva a sapere della morte di David Bowie

LONDRA - Fu un fulmine a ciel sereno. Per tutti. Nessuno, eccetto i familiari e pochissimi amici, sapeva del tumore che lo aveva colpito al fegato senza lasciargli via di scampo, e contro il quale ha combattuto in gran segreto per diciotto lunghi mesi. Aveva 69 anni. L’altro ieri, lunedì, ne avrebbe compiuti 71. E proprio il giorno del suo 69esimo compleanno, l’8 gennaio 2016, uscì il suo ultimo album, “Blackstar”, un «regalo d’addio ai milioni di fan», il suo «canto del cigno»: così, qualche tempo dopo, lo definì l’amico e produttore Tony Visconti, secondo il quale, buona parte dei testi che lo compongono fanno riferimento alla malattia e alla possibilità della morte. Ma nessuno, fino all’annuncio del decesso, era riuscito a percepirlo.

L’arte, la musica, le canzoni, le trasformazioni di Bowie, sempre proiettate verso il futuro, per quasi cinque decenni hanno plasmato il mondo e influenzato nuove generazioni di musicisti. Ma per Bowie quali sono state le maggiori fonti di ispirazione? A seguire le sue prime esperienze nella Swingin’ London, prima con i King Bees e poi con i Manish Boys, nel 1967 Bowie diede alle stampe, su etichetta Deram, il suo primo album, omonimo, messo a punto sfruttando sonorità in equilibrio tra folk e baroque pop. Una produzione da cui già trasudava una singolare energia creativa, ma ancora lontana da ciò che avrebbe creato negli anni successivi. Bowie voleva farsi largo, ma quel disco non glielo permise. Per due anni non si sentì più parlare di lui, e nel 1969, con “Space Oddity”, prima con il singolo, poi con l’album, omonimo, pubblicato tramite Philips, incominciò a ritagliarsi il meritato successo.

Ma Bowie era costantemente alla ricerca di qualcosa di nuovo, di mai sentito. Allo scoccare dei Settanta ascoltò un disco prodotto da Andy Warhol che il suo manager dell’epoca gli portò dall’America: “The Velvet Underground & Nico”, uscito su etichetta Verve nel 1967, che ruppe qualsiasi schema, sia a livello di testi - l’alienazione, la droga, la sessualità, la prostituzione non erano mai state affrontate in modo così esplicito -, sia dal punto di vista della fusione sonora, assolutamente innovativa, costruita al di sopra di strutture che, qualche tempo dopo, sarebbero state definite proto-punk.

Di conseguenza, nello stesso periodo Bowie entrò in contatto anche con quanto gli Stooges realizzarono fino ad allora, “The Stooges” (1969) e “Fun House” (1970). Produzioni, anche in questo caso, che lo folgorarono e che lo portarono a sperimentare nuovi linguaggi. E di lì a poco, nel 1972, tramite Rca, Bowie diede alle stampe uno dei suoi più grandi capolavori: “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars”.

Ma quello fu solo l’inizio della sua costante metamorfosi, sonora e non.

Per comprendere meglio il percorso di Bowie (fino al 1982), negli ultimi anni sono stati pubblicati i box “Five Years 1969-1973” (Parlophone, 2015), “Who Can I Be Now? 1974-1976” (Parlophone, 2016) e “A New Career In A New Town 1977-1982”. Un’altra scelta potrebbe essere la raccolta “Nothing Has Changed - The Very Best of Bowie” (Parlophone 2014): una produzione sicuramente meno esaustiva, ma assolutamente più economica.

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