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OSPITEQuale secolo per la fraternità?

20.03.17 - 19:00
Matteo Quadranti, Gran Consigliere
TiPress
Quale secolo per la fraternità?
Matteo Quadranti, Gran Consigliere

L’eredità delle rivoluzioni di fine Settecento fu la conquista dei principi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità. L’Ottocento è stato il secolo delle libertà, o dell’utopia delle libertà, mentre il Novecento non ha conosciuto utopie, anzi, le due guerre mondiali e relativi regimi da cui siamo usciti ci hanno condotto ad una maggiore eguaglianza, almeno relativa. Col finire del ‘900 questa uguaglianza per certi versi ci ha resi conformisti, talvolta con la maschera dei trasgressori. Quale sarà il secolo della fraternità? Questo forse? Negli ultimi 40 anni la libertà è diventata per la prima volta un'esperienza di massa. I cittadini hanno avuto accesso alle tre dimensioni sociali associate alla libertà: benessere economico, diritti democratici, pluralismo culturale. Eppure il poderoso sviluppo economico ha avuto un esito paradossale: ha ampliato a dismisura le potenzialità di scelta dell’individuo ma ha ingabbiato l’uomo moderno in una concezione individualistica dell’esistenza umana, prigioniero del consumismo. Poi l'eccesso di libertà ha generato anche diseguaglianze crescenti invece che diffondere l'eguaglianza. Vi è infatti una libertà che si declina dividendo gli esseri umani (competizione) mentre vi è anche una libertà concepita sul dare piuttosto che sul prendere, sull’aggiungere piuttosto che sottrarre all’altro (solidarietà e utilità comune). Dalle libertà dal bisogno, siamo passati alla società consumistica che crea bisogni per renderci cittadini consumatori illusoriamente liberi di scegliere. Nasce la solitudine del cittadino globale che si connette da casa al mondo, ordina la spesa che gli viene portata a casa, paga senza andare agli sportelli, scarica film invece di andare al cinema, ...ognuno nella sua solitudine diventa solo sorvegliante e insegnante di sé stesso, per cui viene meno la responsabilità pubblica vigendo il dogma del “io faccio quello che mi pare, nessuno mi può dire cosa devo fare”, “io pago e quindi esigo”, diventiamo l’icona della celebra frase di Bansky che tradotta fa: “noi compriamo schifezze di cui non abbiamo bisogno, con soldi che non abbiamo, per impressionare gente di cui non ci importa”.

Oggi alcuni intravedono la speranza in una terza via alternativa che si basa sulla fraternità, sul collaborativismo in cui si riconosce la nuova generazione (Jeremy Rifkin). Laddove la libertà entra in età matura e comincia a fare i conti con la preoccupazione di ciò che lascerà, con la comprensione degli altri, il rispetto per l’ambiente. Superando socialismo e capitalismo, il collaborativismo, in nuce, esiste già ed è mosso da quella massa di persone attive nella vita sociale: organizzazioni autogestite, funzionanti in base a criteri democratici, tra cui istituzioni di pubblica utilità, caritative, gruppi artistici e culturali, fondazioni educative, club sportivi, cooperative di produttori e di consumatori, organizzazioni per la cura della salute, ecc… che generano il capitale sociale della società. Una società dove si parla di condividere l’auto (carpooling), di economia condivisa (share economy), di sapere condiviso, di impresa come istituzione plurale che rivaluti le proprie risorse umane ed ecologiche, di beni comuni o di comunità; una società fondata sulla libertà del “noi”, del dono e della gratitudine come scambio che arricchisce.

La chiamano società generativa. Puntiamo la telecamera sulla fraternità per i prossimi 40 e vediamo se andrà meglio. Il liberale radicale crea il dialogo, mira a unire gli uomini, non a separarli. Non possiamo, in nome della risoluzione di problemi di breve termine, dimenticare del tutto i valori che hanno fatto la storia del partito e del Paese.

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