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CANTONETiziano Ferro: «Basta soffrire, ho imparato il mestiere della vita»

09.12.16 - 06:00
Con uno showcase alla Rsi, mercoledì il cantautore ha fatto tappa a Lugano per presentare il suo nuovo disco, “Il mestiere della vita”
Tiziano Ferro: «Basta soffrire, ho imparato il mestiere della vita»
Con uno showcase alla Rsi, mercoledì il cantautore ha fatto tappa a Lugano per presentare il suo nuovo disco, “Il mestiere della vita”

LUGANO - Solita aria da bravo ragazzo. Ma con qualche muscolo in più. In California, dove ha realizzato il nuovo disco, ha frequentato non solo sale di incisioni ma pure qualche palestra. Il risultato è un fisico invidiabile per uno che in passato ha avuto qualche problemino con la bilancia. Con parecchie consapevolezze Tiziano Ferro ci ha parlato della sua nuova fatica discografica. 

Tiziano, come  possiamo definirlo il disco?

«È un disco disomogeneo. Con un po’ di sana presunzione posso dire di essere arrivato a un punto della mia carriera in cui posso finalmente osare. A cosa serve l’omogeneità in un disco quando c’è coerenza in colui che parla? Ci sono io che dico delle cose, c’è la mia voce, c’è la mia sensibilità, la mia passione, la mia rabbia. È un disco un po’ da pazzo. Certamente più difficile, più complesso. È risaputo che non mi piacciono le cose facili. A me va bene cosi. Anche perché l’ho scritto con lo stesso atteggiamento che ho usato con gli altri dischi».

Dicono che sia il disco del cambiamento.

«Ho iniziato a 20 anni, oggi mi avvicino ai 40. Quindi inevitabilmente cambio. E spero in meglio. Non aspiro alla perfezione. Non mi interessa. Le persone perfette mi annoiano. Mi terrorizzano. Credo che questo disco mi rappresenti bene».

Cos’è il mestiere della vita?

«È la capacità quotidiana di non sottrarsi a quello che ti propone la vita. Per non affrontare alcune situazioni irrisolte, ci si sottrae da sé stessi e si vive una vita un po’ a metà. Io non l’ho mai fatto, sarei molto triste se accadesse. Il mestiere della vita è un artigiano che si alza ogni mattina e affronta la propria esistenza facendo del suo meglio per crescere e maturare».

Il disco è stato realizzato gran parte in California dove ormai vivi. In passato hai abitato a Londra. È meglio stare all’estero?

«Sono molto curioso. Ho bisogno di viaggiare e conoscere cose nuove. La mia maestra delle medie diceva che ciò che divide un bambino da un uomo è la capacità di elaborare una propria opinione. E per farlo bisogna studiare, viaggiare, vivere. In Italia, quando sono diventato popolare, è diventato un po’ complicato gestire la mia vita quotidiana. Riesco a scrivere se esco, non certo restando chiuso in casa. Così ho iniziato a viaggiare e a recuperare quei pezzi di vita andando all’estero. Il viaggio è un qualcosa in divenire, sarà difficile farmi fermare».

Perché proprio la California?

«Per una serie di circostanze. Viaggiando conosci persone nuove, intrecci rapporti, collabori con musicisti. La maggior parte di loro abita in California, come il mio arrangiatore che da quattro anni ha messo su famiglia proprio lì».

Che rapporto hai con la tua voce. La curi molto?

«Purtroppo no. Ho sempre lavorato molto poco sulla voce. E non è una cosa di cui vado fiero. Certamente quando faccio dei concerti mi riscaldo e faccio esercizi. La voce è uno strumento estremamente sensibile. Nel mio caso è polipolare perché risente dell’umore, del clima, dell’atmosfera di una stanza, dell’energia che respiro. È successo che in un concerto anche se non stavo bene riuscivo ad andare avanti grazie al calore del pubblico. E poi la voce viene condizionata da ciò che ascolti, si plasma attraverso i cantanti che ascoltavi da piccolo».

E tu chi ascoltavi da piccolo?

«Sono cresciuto con i dischi di Battisti, Cocciante, De Gregori. Grazie a mia madre conosco perfettamente tutto il repertorio dei cantautori italiani degli anni Settanta. Da mio padre invece ho ereditato l’amore per i Beatles e i Rolling Stones, Pink Floyd, Stevie Wonder».

“Potremmo ritornare” è stato il primo singolo di questo nuovo album, ma hai dichiarato che il pubblico non l’ha capita.

«L’hanno intesa tutti come un ritorno di coppia. Per me non è così. Se proprio dovesse avvenire nella mia vita un ritorno me lo terrei solo per me. Non ci farei una canzone. Il ritorno di cui parlavo nel brano è qualcosa di un po’ più alto. È la capacità della vita di sorprenderti, il rimanere aperti alla possibilità che tutto può cambiare, anche i ritorni più irreversibili».

Il dolore è una componente ricorrente nei tuoi brani.

«C’è una canzone del nuovo disco che si chiama “Troppo bene per stare male”. È un pezzo in  cui dichiaro a me stesso che non sono più disposto a crogiolarmi nel dolore. Per molti anni l’ho fatto perché avevo bisogno di esplorare alcune parti di me. È importante sperimentarsi nel dolore perché capisci fino a dove sei disposto ad arrivare per essere felice. Ma ora basta».

Si dice che le canzoni hanno qualcosa di terapeutico. Lo è anche per te?

«Certamente. Quando sono in uno stadio e sto cantando un brano che collego a una condizione di dolore forte, solo il fatto di condividerlo con il pubblico fa abbassare la sofferenza».

Le date del tour sono state fissate. Ci sarà un ritorno in Svizzera?

«Spero proprio di sì. La Svizzera è un Paese che è sempre stato presente nei miei tour, e spero questa volta di non fare eccezione».

 

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