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L'OSPITEIl mito del mercato: e il lavoro?

31.08.11 - 14:19
Matteo Quadranti, Gran Consigliere PLR
Ti-Press / Carlo Reguzzi
Il mito del mercato: e il lavoro?
Matteo Quadranti, Gran Consigliere PLR

Il mercato si regge sull’intreccio tra produzione e consumo. Oggi si producono merci per soddisfare bisogni, ma anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. All’inizio e alla fine di queste catene di produzione si trovano gli esseri umani. Il consumo stesso è diventato un mezzo di produzione. Dove la produzione non tollera interruzioni, le merci hanno bisogno di essere consumate, e se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia “prodotto”. La pubblicità serve a questo.

In una società consumistica l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che quest’ultimo possiede. Il consumo diventa “forzato”. Una società di soli consumatori crea una nuova classe di poveri, colpevoli di non contribuire al consumo (se non indebitandosi). Una presenza totalmente improduttiva di cui il mercato non ha bisogno. A loro si può praticare la tolleranza zero.

Man mano che la legge del mercato rende sempre più profonda la divisione tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più esclusi dal consumo, assistiamo a una progressiva limitazione della nostra sicurezza e della nostra libertà per effetto della degradazione del povero, che ha come inevitabile conseguenza la sua messa a carico dello Stato quando non la sua “criminalizzazione”, come avveniva nel diciannovesimo secolo, prima dell’avvento dello Stato sociale. Tagliare le spese per lo Stato sociale significa aumentare quelle per la polizia, per le prigioni, per i servizi di sicurezza, per l’ assistenza, per i sistemi di allarme, e ridefinire la povertà come problema assistenziale o di ordine pubblico.

Se restringere la libertà degli esclusi non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero, la strada dei tagli allo Stato sociale può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi, perché, stravolgendo l’equilibrio tra i due versanti della libertà, in qualche luogo, strada o città, il piacere della libertà si dissolve nella paura e nell’angoscia. Una conferma tangibile, questa, che la libertà di chi è libero richiede, per il suo esercizio, la libertà di tutti. La libertà è possibile solo nel contesto di una significativa relazione sociale e lavorativa, perché, se cresce a dismisura il numero dei disagiati, le case dei più agiati non sono più tanto sicure. Per cui la libertà individuale non si raggiunge con gli sforzi individuali, ma solo creando le condizioni che estendono tali possibilità a tutti. E’ ciò che si chiama solidarietà.

La società dell’incertezza è in grado di produrre deregulation e privatizzazioni sulla spinta esercitata dal mercato globale, ma non è in grado di generare, senza intervento politico, la solidarietà. La mondializzazione del mercato dei capitali ha portato un colpo decisivo al tramontante potere degli Stati. Basti pensare alle agenzie specializzate di Rating che danno i voti al debito pubblico dei vari Stati, mettendo in riga governi e amministrazioni che si vedono tagliati ulteriori fonti di credito se a loro volta non tagliano le spese per programmi sociali, se non aumentano le tasse ai cittadini, se non trasformano i debiti delle banche private e delle imprese in debito a garanzia pubblica, incentivando i capitali ad affluire. In una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell’applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale.

Siamo in una situazione anche di totale mercificazione del lavoro. In una società che si fa sempre più tecnologica è inevitabile la riduzione dei posti di lavoro. Siccome il processo pare irreversibile, l’unica via d’uscita sembra essere quella di ripensare il concetto di lavoro affinché si smentisca l’equazione secondo la quale, dal punto di vista sociale, chi non lavora non esiste. I fini dell’economia che punta solo sulla crescita sono ancora i nostri fini? L’ideologia della crescita non ha in vista alcuna finalità che non sia il suo semplice auto-potenziamento e dove il lavoro, e l’uomo che lavora (costo o risorsa?), non hanno altro fine se non quello di concorrere alla crescita infinita della produzione.

La Storia non è davvero più nelle mani della politica quale interprete del bene comune, e non di quello particolare? Essa è nelle mani dell’economia o della finanza? La ricchezza concentrata diventa finanza, quella distribuita diventa economia. A chi spetta la scelta dei fini a cui da sempre sono deputate l’etica e la politica? L’economia dovrebbe iniziare a produrre, oltre alle merci, anche più servizi per la persona e per la relazione tra le persone. Nel mondo dell’opulenza compriamo, in modo maniacale, per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni vere, e non solo funzionali. Forse è giunto il momento di invertire la tendenza, perché la felicità, nonostante la pubblicità vi alluda, non ci viene dall’ultima generazione di detersivi o di telefonini, ma dà uno straccio di relazioni in più che il lavoro potrebbe tornare a garantire.

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